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sabato 3 settembre 2016

SAGRE SULLA PELLE DEGLI ANIMALI, USATI E MANGIATI




  

Quando  si parla di tutela degli animali, il riferimento principale è alla legge 189 del 2004, (che in verità, come sancisce il Titolo IX-BIS, dichiaratamente tutela non loro, ma il sentimento degli uomini nei loro confronti) : questa, dopo avere analiticamente descritto le sanzioni previste per il vasto repertorio di maltrattamenti, sevizie, strazi, uccisioni a cui gli uomini tanto spesso li sottopongono, all’art. 3 chiarisce che gli stessi comportamenti non sono sanzionabili quando hanno luogo in riferimento a caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, attività circense, zoo, manifestazioni storiche e culturali.

La vastità di deroghe al divieto di tormentare gli animali si risolve di fatto in una loro tutela assolutamente parziale e non è da sottovalutarne un aspetto conseguente, relativo al  fatto che le autorizzazioni ai maltrattamenti concesse dalla legge determinano inevitabili effetti anche nel costume: perchè sanciscono quello che, essendo legale, è non solo permesso, ma anche connotato con parametri di giustizia, secondo una spesso automatica sovrapposizione dei concetti di giustizia e legalità.

Le ricadute sono enormi perché contemplano, per opporvisi,  lo sviluppo di un pensiero divergente rispetto a quello imperante: cosa non facile, come  dimostra lo stato delle cose. Nello specifico di quanto previsto dalla legge,  i tempi arrancano e non si rivelano certo maturi per   mettere al bando allevamenti, trasporti, macellazione; ma neppure  la pesca, ancora oggi tanto circonfusa da un alone bucolico da essere anzi considerata pacifico passatempo  per nonni e nipoti, oltre ad essere in molti contesti definita “sportiva”; si discute all’infinito, con sacche arroccate sulla difesa dell’indifendibile, sulla fine dell’impiego di animali nei circhi; la  caccia può contare su lobby tanto potenti da determinare il supporto interessato di vari partiti in totale spregio di una volontà popolare di  segno ben diverso; per tacere della vivisezione e delle tante ignominie compiute al suo interno. Non un bel quadro di sicuro:  ma, pur nella consapevolezza di uno stato dell’arte tutt’altro che confortante,  non si può non rimanere allibiti di dovere ancora convivere, all’ombra della legalità, con  manifestazioni che, allignate dietro la connotazione di  essere storiche e culturali, sdoganano maltrattamenti pubblici di animali di ogni tipo e genere, purchè autorizzate dalla regione competente, che nei fatti risulta quasi sempre estremamente accogliente dei desiderata di richiedenti, amministrazioni comunali o associazioni che siano.

E’ necessario premettere che il problema non è di secondaria importanza, per quanto venga abitualmente sottostimato:  in Italia sono migliaia le manifestazioni “culturali” condotte con l’uso di animali, che vengono costretti in situazioni etologicamente incompatibili, che di conseguenza possono persino risultare letali, e che comunque regolarmente contemplano la loro sofferenza. Una sorta di  rimozione collettiva favorisce la nostra autoassoluzione, ributtando con facilità l’Ombra fuori di noi: siamo in molti a stigmatizzare le corride o le altre manifestazioni di rara efferatezza che la Spagna si ostina a sostenere, quali il Toro della Vega, inseguito per le strade, terrorizzato e costretto ad indicibile agonia, finito a colpi di lance da un pubblico sadicamente eccitato: manifestazione  protetta in quanto  rituale di origini medievali e insignita dello stato di interesse turistico nazionale; o ancora del Bou Embolat, toro a cui questa volta vengono incendiate le corna: tutte graziose tradizioni, testimoni della cultura locale. Ma non ci mostriamo un gran chè indignati contro le italiche tradizioni, o meglio:  contro abitudini a cui il termine tradizione conferisce un’aurea di sacralità, capace di obnubilare la lucidità del pensiero.  Se anche  non si arriva agli estremi di crudeltà sopra descritti, è pur vero che, anche in Italia, nessun animale sembra essere al riparo dalle nostre violenze “culturali”: cavalli, asini, tori, mucche, buoi, capre, agnelli, piccioni, oche, rane, nelle date prestabilite, vengono sottoposti ad abusi fantasiosamente architettati, geograficamente differenziati: il carattere localistico delle manifestazioni permette che la risonanza mediatica sia contenuta  e vada di conseguenza persa la dimensione globale del fenomeno complessivo. 

Quelle che  il legislatore  con tanta sollecitudine ha deciso di tutelare sono in genere  manifestazioni che si stanno riproponendo da lunghissimo tempo, tanto che a volte è per lo meno laborioso risalire alle origini che spesso finiscono per perdersi, o in ogni caso per non interessare affatto astanti e organizzatori, con l’esclusione di qualche isolato studioso che si affanna a giustificare l’ingiustificabile a beneficio di una locandina dell’Ufficio del Turismo.  Il significato si è perso  ed è rimasta semplicemente l’abitudine alla ripetizione, sdoganata dalla connotazione di “culturale”, che diventa magico salvacondotto in grado  di bypassare insensatezze e crudeltà. Il termine “cultura” in questi contesti viene di fatto mistificato, perché il suo vero significato fa sì riferimento a quel vasto patrimonio di conoscenze, credenze, comportamenti, abitudini, costumi, convenzioni che vengono coltivati e tramandati da una generazione all’altra, ma il passaggio è per sua stessa natura  dinamico,  in quanto nulla può davvero rimanere immutato nel  tempo: la trasmissione intergenerazionale si attua attraverso gli individui, i quali cambiano in funzione del contesto, spinti inevitabilmente ad elaborare nuovi comportamenti ogni qualvolta si trovano in situazioni per le quali i modelli proposti sono  ormai privi di senso, non  sintonici con un pensiero nel frattempo trasformato. In questo contesto dinamico ogni elemento si interseca in un rapporto di dipendenza con gli altri: quando uno muta, è inevitabile che mutino anche gli altri. E soprattutto non si può dimenticare   che il termine cultura contempla implicitamente  quello di civilizzazione, di affinamento e ed evoluzione dei costumi, contempla il compito grande, per usare le parole del filosofo Gino Ditadi, di ingentilire il mondo.

La cultura degli ultimi secoli, e in modo esponenziale degli ultimi decenni, nel mondo occidentale ha visto cambiare radicalmente la considerazione degli animali non umani, nostri compagni sulla scala evolutiva, depositari di diritti da molti riconosciuti diversi ma non inferiori a quelli umani, tanto che il loro sfruttamento indiscriminato contempla un feroce atto di accusa da parte di quelle che oggi sono ancora esigue minoranze, capaci tuttavia di incidere sul pensiero comune.

In questo scenario, non si può che rimanere esterrefatti davanti al proliferare, che la bella stagione amplifica a dismisura, di sagre costruite sul tormento degli animali.

Qualche caso esemplificativo: a  Chieuti, paese alle porte di Foggia, ogni anno  il 22 o il 23 di aprile dei buoi, legati in pariglia,  vengono attaccati a carri, pesanti alcuni quintali, e costretti a trascinarli, correndo con il cuore che impazza per cinque kilometri, pungolati con le aste brandite da uomini a cavallo, che li terrorizzano, li sfiancano, li feriscono. Grande festa in paese: la tradizione si ricollega alla leggenda di San Giorgio che, convertita al cristianesimo una città libica, uccide il drago che la affliggeva e ne fa trascinare il cadavere fuori dalla città da una coppia di buoi.   Pure fossero appurate la credibilità storica dell’esistenza del suddetto drago, la compatibilità del concetto di santità con l’uccisione di un essere vivente qualunque sia, la liceità della conversione di un’intera città ad altra religione, ove tutto questo fosse appurato, si diceva, nonché ben presente alla mente dei cittadini di Chieuti, perché mai devono essere martirizzati dei buoi in onore di tutto ciò? Quale è il nesso logico, quale la giustificazione? Assordante il silenzio decennale di Nichi Vendola e speriamo quello a termine di Michele Emiliano, responsabili quali presidenti della regione Puglia dell’autorizzazione alla corsa, muti davanti alle proteste reiterate di tante associazioni (Movimento Antispecista, CEDA, LAC, ANPANA…), in una posizione che risulta tanto più inaccettabile quando coniugata alle istanze di una sinistra che, nell’immaginario, si continua a vedere come insofferente e ribelle davanti alle ingiustizie. Per completare il quadro: la Chiesa Cattolica, che si vorrebbe portatrice di messaggi di pace a 360°, non manca di dare la propria benedizione al martirio dei buoi.

La latitudine non è la discriminante: i buoi, animali lenti per natura, sono fatti correre in evidente spregio delle loro caratteristiche etologiche, anche nel corso di “una bella festa” che si ripete ogni anno ad Asigliano, provincia di Vercelli: in questo caso il ricordo da salvaguardare (ma chi è che davvero “ricorda” o è anche solo interessato a farlo?) sarebbe quello di un’epidemia di peste del 1436 in cui fu San Vittore a compiere il miracolo della guarigione collettiva: gli  abitanti si impegnarono allora  a  fare correre “in segno di gioia e di gratitudine” gli animali più lenti, secondo la diffusa pratica di far pagare ad altri i propri debiti: in sintonia con la tradizione dell’agnello da sacrificare per pagare i peccati del mondo.  Gli storici per altro contestano la ricostruzione, ma tant’è: foto e video delle passate edizioni mostrano animali terrorizzati, inseguiti e bastonati con grande convinzione dai giovani locali in preda a delirio  machista mentre anche i bambini ai lati della pista urlano e si divertono, imparando una lezione di prepotenza e prevaricazione distante anni luce  da un approccio all’educazione e al rispetto di chi è diverso ed è debole, tanto auspicabile in ogni tempo e quanto mai necessario in quello attuale.

A Sacile, invece, provincia di Pordenone, la sagra è quella degli Osei: ogni anno, in una reiterata riproposizione di quanto iniziato a partire dal 1274,  vengono messi in mostra migliaia di “uccelli da richiamo”, espressione che parla di animali rinchiusi in gabbie anguste, l’una sopra l’altra e l’una di fianco all’altra. Esseri di pochi grammi di peso, i quali servono, a propria insaputa e loro malgrado, a richiamarne altri, ammaliandoli con le lusinghe del proprio canto per portarli sulla traiettoria dei pallettoni dei cacciatori, i quali, armati di tutto punto per una guerra unilateralmente dichiarata, restano incredibilmente immuni da ogni sentimento di vergogna nell’esibirsi in un confronto immensamente impari (si veda “Volare” a cura di AFG; NOsagra OSEI 2016) : del tutto fuori luogo l’orgoglio esibito dalla comunità di Sacile che definisce “festa della natura” una tradizione che è solo repressione: della libertà, del diritto di volare, della dignità e, ancora una volta, del rispetto.

E poi c’è la corsa del Gallo alla Saga del Crostone, a Strozzacapponi (in nomen omen…), provincia di Perugia: qui nell’ameno borgo umbro, l’evento più atteso è la corsa di 400 metri con un gallo, sollevato dagli uomini mentre corrono, in portantina, a mò di statua: lui cade, scappa, viene recuperato: ci si diverte davvero tanto a vederlo mentre cerca di sottrarsi ad un gioco che di certo deve sembrargli, oltre che tanto pericoloso per lui, francamente privo di senso. Non bastasse, l’assistenza al pollastro (come leggiadramente lo chiamano alcuni cronisti) termina poi con un grande banchetto: perché la  Sagra è quella del Crostone, vale a dire pietanza con ben venticinque ingredienti a base di interiora di pollo.

Situazione, quest’ultima, che porta nel cuore di un’altra costante delle sagre che spesso si trasformano semplicemente in occasione per abbuffate smisurate: la vittima privilegiata è lo stesso animale di cui si celebra la “festa”, pubblicizzata senza pudore in  manifesti che invitano alla sagra del  maiale,  del cavallo, dell’asino, dell’oca, e di tanti altri ancora. Un insulto per il termine stesso di sagra, in cui si riconosce l’etimologia di sacer, che ricorda l’origine tradizionale di festa religiosa, di una consacrazione o della commemorazione del santo patrono. Davvero nulla più di sacro si intravede, di spirituale e tanto meno di etico: ancora una volta sarebbe doveroso che il linguaggio non falsificasse, non obnubilasse, giustificandola, una realtà che è di fatto un delirio di ingordigia, nemmeno giustificato quale compensazione a prolungati digiuni, ma da  umani generalmente più che satolli,  che  celebrano piuttosto il trionfo dell’ingordigia, dell’indolente riempirsi lo stomaco al di là di ogni necessità e buon gusto, nella serena rimozione di chi, non di cosa, stanno mangiando.  

Impossibile citarle tutte le sagre, i palii dei cavalli, degli asini, quelle delle oche, delle rane  e di tutti gli altri, messi lì a celebrare, in tempi di globalizzazione,  anacronistiche rivalità tra borghi e a vivacizzare momenti di normalmente scolorita devozione religiosa. Tutte, nella loro diversità, si risolvono  nella esibizione di forza a danno di qualcuno, un animale, che è più debole, costretto con la violenza a comportamenti innaturali, sforzi estremi,  competizioni rovinose, in totale assenza di una qualsiasi utilità reale: solo esibizioni pubbliche tese ad eccitare il pubblico presente, spronato ad entusiasmarsi davanti al  disagio, alla difficoltà, alla sofferenza degli animali coinvolti, in un clima di per quanto breve euforia collettiva. Nel disinteresse per le conseguenze in termini di desensibilizzazione di quella parte di pubblico ancora plasmabile, quello dei bambini, perseguita grazie all’attribuzione di   connotazioni positive ad atti irrispettosi o crudeli.

Poche ad oggi sono le città che, in Italia, hanno accettato di rinunciare alle manifestazioni culturali con animali: nel 2015 nessun  pitu, termine locale ad indicare un tacchino, è stato decapitato a Tonco (Asti), dove per la prima volta è stato sostituito con un fantoccio. Tante restano le  retroguardie arroccate sulla difesa della tradizione, a scapito di una seria riflessione sull’importanza  e la necessità del rispetto per ogni creatura vivente. Ma per quanto poche sono lì a dimostrare che il cambiamento è possibile oltre che doveroso: e non sarà un malinteso senso della cultura e della tradizione ad arrestarlo. Legislatori illuminati non dovrebbero essere spettatori, ma promotori di cambiamento, alla luce delle convinzioni personali che necessariamente devono nutrirsi della ricchezza delle riflessioni, delle osservazioni, delle conoscenze che danno atto della complessità e della articolazione della realtà, innumerevoli volte modificatasi da quando certe manifestazioni hanno visto la luce. E quand’anche invece, come nel caso delle manifestazioni più note e popolari, è possibile ricostruirne il percorso attraverso i decenni o i secoli, la mente umana possiede comunque la capacità di simbolizzazione e i simboli sono in grado di risvegliare la coscienza viva e il ricordo esplicito: di essi ci si può e deve di conseguenza servire, qualunque sia il ricordo o la memoria che si vuole risvegliare.

La vita non è un gioco a somma zero, diceva Paul Watzlawick:  la perdita di un giocatore non significa la vincita dell’altro, perché si vince solo insieme, sommando il bene dell’uno a quello dell’altro; quello da perseguire è quindi un’ideale di armonia con il benessere biologico, psicologico, sociale di tutte le forme viventi. Le manifestazioni culturali, che si offrono come momento di riproposizione di un passato da cui si vuole trarre vigore e incitamento,  non possono essere il luogo dove tutto ciò viene negato e calpestato.

Articolo già pubblicato su www.lindro.com

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