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sabato 25 giugno 2016

DAL CARNISMO AL VEGANESIMO: scelta definitiva o fase transitoria?



    

              “Amati, odiati, mangiati”[1] libro di Hal Herzog, uscito in Italia nel 2012, riecheggia fortemente nel titolo il contemporaneo “Perché amiamo i cani, indossiamo le mucche, mangiamo i maiali”[2] di Melanie Joy. E in effetti analoghe sono le domande che entrambi gli autori si pongono, alla ricerca del  bandolo della matassa intricata dei nostri comportamenti scombinati, schizofrenici, dissociati che ci portano a trattare come un principino il nostro cane e a lasciare con indolente indifferenza che il maiale venga scannato nel più turpe dei modi. Pur compiendo un percorso investigativo nella psiche umana per certi versi coincidente, i due autori, entrambi  studiosi di psicologia,  pervengono a conclusioni fortemente divergenti, lei ad abbracciare uno stile di vita vegano, lui a santificare quella virtù che per definizione sta nel mezzo e quindi a perorare il  consumo di ogni prodotto di origine animale, però in modo moderato, senza esagerare.

Lasciando  ad altri contesti una disamina completa delle argomentazioni, in questa sede è utile entrare nel merito di una ricerca di cui il suddetto Herzog parla diffusamente nel suo libro, ricerca che lui usa senza sconti a sostegno delle sue tesi per cui è bene mangiare carne senza eccedere: si tratta del fenomeno degli onnivori di ritorno, di coloro cioè che, dopo avere per un periodo di tempo variabile praticato una dieta vegetariana  o vegana, ritornano baldanzosamente al loro precedente carnismo: è utile farlo anche perché l’argomento è a quanto pare di attualità,  affrontato e amplificato  nel numero di aprile 2016 della rivista di psicologia e neuroscienze “Mente  e Cervello”[3], il chè testimonia di  un fenomeno in atto, o forse due: l’uno riferito ad una dinamica che induce vegetariani e vegani a ritornare sui propri passi alimentari -“Hanno visto la luce e ricadono nel peccato” nelle sarcastiche parole di Herzog - e un’altra che induce ad usare mediaticamente il fenomeno per una denigrazione, variegatamente dissimulata, del multicolore universo animalista, polarizzato sulle proprie tesi “con fervore religioso”.
Herzog, esperto di zooantropologia, vale a dire della relazione uomo-animali, si concentra sulla negoziazione personale dei dilemmi etici nell’ambito di tale relazione, sulla base dei suoi studi e delle sue ricerche in terra americana.  La situazione di riferimento è quella  di una nazione, gli Stati Uniti, in cui si mangiano ogni anno circa 10 miliardi di animali per un totale approssimativo di  33 miliardi di kg, non esattamente un’inezia né un problema da sottostimare. E non può stupire che almeno una parte dell’esercito delle persone che se ne nutre, si trovi a fare i conti con diffusi sensi di colpa connessi al consumo per lo meno di qualche specie animale, diversa a seconda della cultura. Né è di poco conto il fatto, comprovato da ricerche scandinave oltre che dall’esperienza diffusa, che più un taglio di carne è rosso e sanguinolento più avversione induce, soprattutto all’interno del genere femminile, avversione tre volte più comune di quella alle verdure e sei volte più comune di quella ai frutti: insomma, più le carni sono naturali e meno piacciono alla vista e bisogna dissimularne l’origine, in direzione diametralmente opposta alla ricerca di naturalezza che sempre di più investe le nostre preferenze alimentari generali, all’insegna dell’eco e del bio, qualunque cosa intendano e sottendano esattamente questi prefissi.
Il consumo di carne sempre meno è considerato frutto di una preferenza neutra, ma è invece sottoposto ad un processo di moralizzazione, vale a dire ad un giudizio etico: per motivi salutisti ed ambientali, perché comporta sofferenza per gli animali, perché il lavoro sporco degli addetti ad allevamento e macellazione è terribile. Nonostante tutto questo e la presunta ondata di vegetarianesimo che sembra spazzare l’America, i consumatori, ancorchè occasionali di carne, oscillano, in quel paese, tra il 97 e il 99%. E non è raro il fenomeno di chi si riconosce nella categoria veg[4] pur mangiando, magari solo ogni tanto, qualche animale:  ma pazienza, in fondo un cattolico integerrimo che cade nel peccato non cessa di considerarsi tale. E se è vero che, a quanto Herzog sostiene,  circa la metà dei veg sentirebbe desiderio di carne e manterrebbe le proprie scelte con grande sacrificio, il richiamo alla religione è ancora esplicativo: che fatica non cadere nel peccato!
Su questa realtà si inserisce il dato sconcertante che riguarda il fenomeno del carnismo di ritorno: un numero di persone triplo rispetto a quello degli attuali vegetariani  lo è stato nel passato, ma poi è tornato alle antiche abitudini talvolta  rendendole un po’ più soft, ma talaltra avventandosi sulle carni in una sorta di crisi da decompressione e mettendo in atto una logica tanto stringente quanto discutibile: “Pensavo che sarebbe stato ipocrita mangiare solo pollo o pesce, così passai da niente carne a tutta la carne”: davvero un bel modo per essere in pace con la propria coscienza.
Se i dati sono questi, visto che non esistono motivi per metterli in discussione, molto meno incontrovertibili sono le spiegazioni che Herzog dà al fenomeno. Per esempio quando afferma che ”il desiderio di mangiarli è la più naturale delle interazioni umane”: in questo modo con un’asserzione tanto lapidaria dà la soluzione al problema, vale a dire che mangiare carne sarebbe del tutto naturale; e di conseguenza sarebbe un movimento contro natura quello di chi ha deciso di non farlo. Non sembra accorgersi  di quanto queste tesi siano antagoniste rispetto ad altre sue affermazioni riferite a  disgusto, avversione, sensi di colpa, connessi al consumo di carne. Non si può per altro prescindere dal fatto che la visuale da cui osserva il fenomeno, oggetto dei suoi studi e delle sue ricerche, non è certo equidistante nè asettica. Di sé stesso racconta infatti che nella vita non si è fatto mancare nulla, mangiando, qua e là per il mondo,  cervello di pecora, intestini di maiale e culatta di orso nero; che a 36 anni gli capitò di menare fendenti sul corpo ancora caldo di un manzo da 600 kg; che non si è neppure astenuto dall’aiutare un amico cacciatore a spellare i procioni, che questi amava esporre nella sua casa di campagna: insomma un amante degli animali davvero sui generis, che però si vanta oggi, sì di mangiare  carne, ma non, bontà sua, di vitello, in quanto, combattuto sui limiti dei nostri obblighi etici nei confronti degli animali, vive in un universo morale complesso, in cui si muove con scelte a suo dire sfumate : risparmiare i cuccioli é il suo modo di risolvere il problema.
Per altro, la sua descrizione di pasti con amici tutto può essere considerata tranne che neutrale, visto che parla di lussuria della carne, di piacere  trascendente nel consumarla, di cene a base di bistecche oscenamente costose, di purezza platonica nella pancia di maiale. Non si può non  sentirsi irritati da posizioni di questo genere all’interno di un discorso che fa riferimento all’etica. Ma l’irritazione è reazione emotiva che nulla toglie ai numeri, quelli appunto degli onnivori di ritorno: il problema resta e da lui in fondo arrivano ben poche illuminazioni al proposito, se non quelle che fanno sarcastico riferimento a cadute di volontà di vegetariani in crisi di astinenza, personaggetti da quattro soldi che depongono le armi e perdono la battaglia alimentare allo  sfrigolio delle ali di pollo, quando fritte in olio e lamponi. E che, una volta abbandonata la lotta, si gettano senza renitenza su fegatini  a partire dalla prima colazione , passando poi per i pasti successivi: e per fortuna la notte dormono.
Con meno concessioni , affronta il problema in suo articolo la rivista Mente e cervello, articolo   in cui si afferma che per molti il veg non è un cambio definitivo di stile di vita, ma una fase transitoria, “spesso breve”: questo sulla base di un’indagine rigorosa di Human Research Council, ora Faunalytics, svolta su un campione di 11.000 statunitensi, da cui risulta che i veg sono solo il 2% della popolazione; che l’86 % di chi era stato vegetariano e il 70% di chi era stato vegano è tornato a consumare carne. La resa avviene nel giro di pochi mesi: le cause sono variegate e vanno ricercate tra spinte sociali (disagio nel sentirsi diversi) e familiari (partner non veg) , costi, gusto, salute. Il “ritorno” è anche in relazione alle origini della scelta: ritornano più facilmente sui propri passi coloro che erano stati spinti da motivi salutisti quindi egocentrici, persistono coloro che erano stati mossi dal convergere di più motivazioni altruiste, verso gli animali, verso l’ambiente , in funzione di una maggiore giustizia sociale.
Insomma, per chi ritiene fondamentale, imprescindibile, etico vivere nel rispetto di tutte le forme viventi, le notizie davvero non sono confortanti. Ma forse, tra i dati emersi, c’è ben più di uno spiraglio che si può aprire su una realtà un po’meno disarmante.
Il dato più eclatante è che le ricerche di riferimento di “Mente e cervello”, come quelle riportate da Herzog, le une e le altre definite al di sopra di ogni sospetto, riguardano gli americani, oltre 300 milioni di individui, ma non il mondo intero. Osservazioni, che nell’articolo in esame appaiono  graficamente e sostanzialmente marginali, dicono per esempio che il mondo veg in Italia è costituito da circa il 6/7%  della popolazione, secondo alcune ricerche anche di più;  quindi una percentuale decisamente maggiore di quella presente in USA; che le motivazioni alla base della scelta da noi sono relative soprattutto al rispetto per gli animali, solo a seguire a preoccupazioni salutiste e ambientali. Quindi l’articolo presentato in copertina come “Carnivori di ritorno: storie di vegetariani pentiti”  e il sottotitolo interno assolutizzano  e generalizzano quella che invece risulta essere la realtà americana. Si possono fare ulteriori osservazioni: all’interno dell’articolo stesso molti sono i riferimenti allo stesso Herzog e gli stralci riportano, tra le sue affermazioni, quelle che risultano essere particolarmente ridicolizzanti della realtà veg.  Inoltre l’articolo è corredato da ben quattro immagini a tutta pagina di pezzi di carne: nulla è neutro nella comunicazione e tanto meno lo sono le foto, che avrebbero potuto riguardare (o almeno essere intercalate con quelle di)  mele colorate, spaghetti al sugo di pomodoro, insalata verde o lenticchie e ceci, con uguale impatto emotivo nella vividezza dei colori , ma di segno contrario rispetto al giudizio implicito: è un modo per sdoganare indirettamente, quasi subliminalmente, la scelta carnista. Non si può prescindere dalla posizione sulla questione animale della rivista in questione, prestigiosa e di grande diffusione, che riporta regolarmente i risultati provenienti dal mondo della sperimentazione animale, su cui mai viene spesa una sola parola di tipo etico. Del tutto schierata insomma. E sostenere eticamente la vivisezione  parallelamente alla diffusione del rispetto degli animali attraverso scelte alimentari, sarebbe davvero difficile.
Di certo le informazioni di cui si è detto hanno una loro utilità e devono essere prese in considerazione, scansando il pericolo implicito nel libro e nell’articolo di una ridicolizzazione del fenomeno veg attraverso la denigrazione dei veg stessi.
Fondamentale per esempio prendere atto di come in realtà come quella in cui viviamo si tratta di un movimento in continua ascesa, che coinvolge strati diversissimi della popolazione: tante considerazioni derivano dalla prevalenza del mondo femminile, della ubicazione in centri urbani e del nord, di un grado culturale elevato. Ne discendono importanti informazioni sul peso dell’empatia, della cultura e dell’informazione che risultano fondamentali nello scardinare la cultura dominante, dell’importanza di un contesto di vita critico e aperto. Informazioni quindi che aprono la strada ad una maggiore conoscenza del fenomeno e alla possibilità conseguente di stabilire quali sono le strategie più efficaci per la diffusione di un atteggiamento etico verso tutti gli animali.
Il  sarcasmo e il dileggio di Herzog, la solo apparente imparzialità della rivista, evitano ogni accenno ai reali termini della questione, vale a dire al collegamento tra lo stile alimentare oggi imperante e l’esistenza di quell’enorme macello che ogni anno nel mondo uccide 176 miliardi di animali, se si ha il buon gusto di comprendere anche quelli acquatici tra quelli che perdono la vita in ossequio alle convinzioni dell’autore secondo cui noi umani siamo situati “su un piano morale diverso perchè produciamo linguaggio simbolico, cultura e giudizi etici: abbiamo un enorme cervello e un grande cuore. Noi vediamo il mondo in sfumature di grigio” quel grigio, colore dell’indifferenza, che nemmeno più ci fa percepire il rosso del sangue che, in nome di tali eccitate convinzioni, facciamo versare agli animali non umani.


[1] Bollati Boringhieri, 2012
[2] Sonda Edizioni, 2012
[3] Mensile di Psicologia e Neuroscienze, n. 136, anno XIV
[4] L’abbreviazione veg, riferita al complesso di  vegetariani e  vegani, vegetarismo e veganesimo,  è inevitabile in quanto nello scritto di Herzog le due categorie vengono spesso unificate.


L'articolo è stato pubblicato su www.lindro.com 

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