I ricorrenti dibattiti sull’opportunità di aprire nuovi acquari e gli ampliamenti di quelli già esistenti (Cagliari....Roma....) sono l’occasione per alcune riflessioni su queste strutture e soprattutto sui loro inquilini, strutture presenti in gran numero sul territorio nazionale: dal più
antico, che è quello di Napoli, al più celebrato, quello di Genova, inaugurato
nel 1992 con la benedizione architettonica di Renzo Piano, e divenuto indiscusso polo d’attrazione della città, meta
turistica, occasione di gite, soprattutto scolastiche, ma non solo.
Gli animali, ospitati secondo la terminologia in uso, imprigionati secondo un approccio più rispettoso della realtà che
passa anche da un uso più corretto del
linguaggio, possono essere i più disparati: pesci marini, pesci d’acqua dolce,
animali provenienti da foreste pluviali, squali, delfini, tartarughe, foche,
pinguini, anfibi, rettili.
Andando diritti al cuore del
problema, non si può che affermare che gli acquari sono il corrispettivo
acquatico degli zoo: luoghi dove animali provenienti da luoghi diversi, in
genere abituati a grandi spazi e a una
vita di relazione articolatissima, vengono costretti in ambienti minuscoli, a
rapporti intraspecifici del tutto falsati, a ritmi quotidiani estranei alle
loro esigenze di specie. Il motivo della loro cattura e della loro riduzione in
cattività è uno e uno soltanto: un business che può assumere dimensioni
stratosferiche, dal momento che gli animali sono lì per fare arricchire qualcuno e
lo scopo è in genere raggiunto.
Ammetterlo però non sta bene e
quindi la realtà viene nobilitata con
motivazioni riferite per esempio all’educazione dei bambini, che ne sono i
fruitori principali, i quali, a dire degli organizzatori, possono fare percorsi interessanti tra divertimento,
conoscenza e cultura del mare.
Varie sono le considerazioni: una
attiene a ciò che i bambini, spesso in gita scolastica, (non)imparano: è
sufficiente osservarli, mentre passano davanti alle vasche, soffermandosi in
genere non più di qualche secondo, e ignorando le informazioni fornite dai cartellini esplicativi. E’ un po’ come essere
in un grande luna-park, sfavillante di colori, attrattive e sollecitazioni
visive, oltre che, ahimè per gli animali, sonore. L’attenzione, per quanto
fuggevole , è attratta dall’aspetto degli
animali , dai loro colori smaglianti,
dalle forme inusuali, da grandezze fuori
dal comune, da movenze curiose. L’unica vera domanda, quella che si faceva
Bruce Chatwin quando soffriva l’intollerabilità del suo essere lontano da dove
desiderava, sarebbe “Che ci fa lui qui?”, ma non è contemplata tra quelle
potenziali da proporre ad insegnanti e genitori: i bambini in grado di formularla sono
davvero pochi, solo quelli dotati della
capacità di posizionarsi fuori dal coro, in grado di non farsi inserire come
tesserine nel mosaico preparato dai grandi, e di guardare invece la situazione dal di fuori,
da una postazione critica che consente di vedere che il re è nudo: lì quegli
animali non dovrebbero proprio starci, perché nessuno di loro è fatto per
vivere in cattività, negli spazi ristretti a disposizione. Gli adulti, se
fossero in grado di accoglierla quella domanda, i bambini all’ acquario non ce
li avrebbero nemmeno portati, quegli adulti la cui autorità non è certo facile
contrastare, perché sono loro che decidono cosa è bene e cosa no, cosa va fatto
e cosa no, sulla scorta di una facoltà discriminatoria tra bene e male
autoattribuita, tanto difficile da mettere in discussione soprattutto da chi,
in virtù dell’età, possiede se mai solo la capacità di esternare con semplicità
un vissuto interiore, che si nutre non di argomentazioni complesse, ma di
identificazione empatica con quell’altro lì di fronte, chiuso nella vasca,
capacità spesso incapace di tradursi in
parole.
Per rendersi conto di cosa sono
veramente gli acquari, risulta esemplificativa la situazione di uno degli animali più amati, il delfino: gli studiosi
ci dicono che questi mammiferi, quando sono in libertà, passano l’80% del loro
tempo sotto la superficie delle acque, giocando, esplorando, cacciando: sono
animali liberi, che amano le profondità dell’oceano che scandagliano anche a
200 metri di profondità; negli spazi dei delfinari l’80% del loro tempo lo
devono invece passare in superficie , costretti a giocare a palla o a girare in
tondo magari in mezzo al ritmo di una musica assordante; la discesa nell’acqua
non supera i 2 metri di profondità: sarebbe
come per un uomo restare in ascensore
spiega in modo efficacissimo Mark Hawthorne[1],
sconvolgente esperienza claustrofobica per
chiunque di noi. Ma preferiamo vivere di
rappresentazioni anziché di verità: e allora nel nostro immaginario il
delfino continua ad essere quell'animale gentile sdoganato da tanta filmografia
di cui il film Flipper [2]è
solo l’esempio più eclatante, che consideriamo felice mentre compie
irragionevoli acrobazie perché sorride con un sorriso che è in realtà il più grande inganno della natura[3]:
frutto della sua conformazione mascellare che dà forma ad una sorta di smorfia,
ci ostiniamo a interpretarlo come reazione
di serena contentezza alle nostre assurde richieste. Ma sereni i delfini in cattività non possono proprio
esserlo: animali molto intelligenti, veloci, dotati di autocoscienza, sono consapevoli
delle circostanze in cui si trovano, e della propria condizione di prigionia; la
ripetitività degli elementi stressanti li rende più vulnerabili alle malattie e
li induce a volte a comportamenti aggressivi auto o etero diretti. Non è un
animalista visionario, ma il famoso oceanografo Jacques Cousteau a etichettare
come suicidario il comportamento di uno di loro che costringeva in un acquario
e che morì picchiando il cranio contro i bordi della struttura: fu suo figlio
Jean-Michel a parlare di suicidio puro e
semplice e ad affermare “Abbiamo ucciso un delfino disperato con i nostri
maltrattamenti e la nostra indifferenza”. In modo non diverso si esprime Ric O’Barry,
colui che catturò e istruì i cinque delfini della serie Tv Flipper, trasmessi con
grande successo tra il 1964 e il 1967: racconta di come una di loro , Kathy,
decise deliberatamente di non respirare più e di morire. “Uso la parola
suicidio con trepidazione, ma non conosco altra parola per definire quello che
ho visto”[4].
Ric trasformò il senso di colpa conseguente alla consapevolezza di tanto male
fatto a questi animali fondando il Dolphin Project, in loro aiuto e difesa. Se il suicidio è un’evenienza assolutamente
drammatica quando coinvolge un umano, perché testimonia di una vita talmente
insopportabile da rinnegare se stessa, quando messo in atto da un animale
annichilisce: perché loro, anche più di noi, appaiono immersi nella propria
natura corporea, indifesi come bambini, laddove noi adulti possiamo avere a
disposizione meccanismi complessi di difesa e sublimazione del dolore.
A tutto ciò si aggiunga che sulla
cattura dei delfini degli zoo acquatici arrivano informazioni che la connettono
a quelle forme di caccia immortalate nel
documentario The Cove, conosciute in
tutto il mondo grazie alla diffusione delle immagini di un mare insanguinato e
di un orrore senza fine, per il quale il linguaggio a volte non possiede parole
esplicative: in quelle immagini si trova la misura definitiva di ciò di cui stiamo
parlando, in quel sinistro fascio di luce gettato sulla realtà degli acquari.
Come sempre, un provvidenziale meccanismo di negazione ci protegge
dall’ammettere ciò che sarebbe fonte di angoscia inesauribile: quindi: non è
vero niente. Tutto grazie ad un sano
negazionismo in grado di farci ignorare
i peggiori crimini quando non abbiamo i mezzi per giustificarli.
Ancora a lungo si potrebbe
parlare degli zoo acquatici, con
descrizioni di altri grandi cetacei
quali le orche: è comunque sufficiente
raccontare che la cattura avviene dopo che gli animali, una volta individuati in gruppo dagli aerei, vengono spinti dalle barche in luoghi chiusi
mentre pescatori subacquei usano esplosivi per spaventarli; vengono poi bloccati
in grandi reti, legati alle barche, trascinati
a riva, messi nei container e trasportati fino ai luoghi della loro cattività,
dove il viaggio termina per sempre: ciò al netto di quelli che succede
rimangano impigliati nelle reti come fu per un cucciolo durante la cattura di ben 80 orche
nel 1970 a Penn Cove, che morì insieme alla madre la quale tentava di soccorrere
il suo piccolo in agonia. Anche delle orche non si può che ricordare che
soffrono depressione, noia, decadimento fisico, stress: come potrebbero non farlo
se, fatte per coprire giornalmente distanze di 160 km, una volta inserite negli
acquari sono costrette in spazi che
definire tinozze è tutto ciò che si può fare? Bisognerebbe forse anche cominciare a
chiedersi il motivo per cui in cattività vivono , o meglio sopravvivono, una
media di 13 anni a fronte dei 60 per i
maschi e 90 per le femmine quando sono in libertà[5].
Per altro è estremo insulto alla loro natura l’essere chiamate balene-killer, in
quanto in natura non hanno mai ucciso nessun uomo e solo in cattività lo fanno:
si tratta delle conseguenze omicide stimolate dalla prigionia, che induce
iperaggressività e persino automutilazione: come è possibile non fare il
collegamento?
Ma se sono i grandi cetacei le
maggiori attrazioni degli acquari, non è meno infelice la sorte di tutti gli
altri esseri acquatici lì imprigionati: purtroppo la sorte dei pesci in
generale sta molto poco a cuore anche a chi è solito preoccuparsi di non umani:
li sentiamo in qualche modo ancora più diversi perché vivono in acqua e questo
segna un’ulteriore lontananza da noi, che siamo terrestri per definizione, e
che pure tanto li invidiamo da sforzarci di imitare la loro capacità di
muoversi immergendosi e solcando le acque, senza riuscire ad eguagliare neppure
il più sparuto di loro. E poi, ahimè, sono muti, muti come pesci per l’appunto:
e questo sembra favorire ai nostri occhi un’ulteriore svalutazione: oltre al
fatto che “E’ perché sono muti che gli animali non ci dicono male parole”, come
dice uno di quegli enormi conoscitori dell’animo umano che sono i bambini di Napoli intervistati da Marcello D’Orta[6],
molto più capace degli adulti di cogliere la portata del male che anche ai
pesci siamo tanto bravi a fare, impassibili davanti al loro dolore che è muto.
Insomma se c’è una cosa di cui
non sentiamo il bisogno è un altro acquario; se da un lato non si può che
inorridire al milione di visitatori annuali attesi all’Eur, che
avrà così un rinnovato fascino e si trasformerà in area ad alta
vocazione turistica, c’è da essere grati
a nome di tutti gli animali acquatici per la presa di posizione di chi vi si
oppone: ma bello sarebbe che le
motivazioni non fossero solo quelle della sostenibilità ambientale ed
economica, ma prima di ogni altra quella dell’insopportabilità dell’ingiustizia
inferta ancora una volta ad esseri che abitano i mari e le altre acque, che
quelle acque amano e frequentano a
giusta distanza da noi, una distanza in genere abissale, che qualche volta giocosamente
accorciano incapaci di immaginare quanta volontà di sterminio riesca ad
animarci.
[1] Mark Hawthorne, Bleating
hearts, Changemakers books 2013.
[2] Flipper,
regia di Alan Shapiro 1996; remake de Il mio amico delfino, regia di James
B. Clark 1963.
[3] La
definizione è di Richard O’ Berry.
[4] Richard
O’ Berry, Dietro il sorriso dei delfini,
, Edizioni Sonda 2014.
[5] Op. cit.
punto 1
[6] Marcello
D’Orta, Nessun porco è signorina, Mondadori 2008.
Complimenti Annamaria. Ciò che hai scritto è il ritratto nudo e crudo della realtà.I suicidi degli animali sono l'esempio lampante di che cosa siano queste prigioni. Vorremmo pesci liberi e acquari vuoti ma anche da liberi i pesci non hanno pace, pescati con un ritmo ossessivo in ogni sorta di ambiente acquatico e nemmeno contati a numero ma a peso. Non solo a Cagliari si sta progettando di costruire questa prigione ma pure all'EUR di Roma sorgerà un carcere acquatico degno di una capitale http://www.acquariodiroma.com/?main=2 Immaginiamo che giro di soldi ci sia dietro questo baraccone.
RispondiEliminaVerissimo Paola: i pesci non sembrano in grado di destare alcuna empatia in moltissime persone: basta pensare a chi è vegetariano "però il pesce lo mangio". Non sono esseri senzienti, insomma.
EliminaMi è stata segnalata da te e anche da altri la costruzione dell'aCquario a Roma, che ho quindi ricordato nell'articolo. Grazie della tua continua attenzione.
“La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali” (M. Gandhi)
RispondiEliminaAppunto......
EliminaSi, il discorso è che lo sfruttamento animale è fortemente mistificato, smerciato come momento di auspicabile contatto con la natura. Le forme subdole sono quelle più difficili da fare decodificare. Grazie Roberto
RispondiEliminaE' vergognoso vedere tutte quelle scolaresche negli acquari. Gli insegnanti, prima di organizzare certe gite, dovrebbero riflettere!
RispondiEliminaSono perfettamente d'accordo Carmen
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