“Hai solo cinque anni”- dice Franco Marcoaldi al suo cane- “ma penso di
continuo alla tua morte.” E lui ribatte ”Con
tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua,
giocare con i gatti, cacciare le
lucertole, mangiare. Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e
asseconda il vento. Svuotato l’io, sarai
pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”(Animali in versi). Già: la
fa facile il cane: ma come lo svuotiamo l’IO da tutti i suoi fantasmi, come
facciamo a vivere un presente incontaminato? No, noi anche quando giochiamo e
ridiamo, il vento non lo assecondiamo proprio: ci lottiamo contro, proviamo a contrastare il
tempo che lui ci porta, restando in
compagnia di quella angoscia che è paura senza oggetto, paura
dell’ineluttabile, di dover sapere che tutto questo finirà: perché, dopo, la morte arriva di sicuro.
Il tema della propria morte e di quella delle persone che si amano disorienta da sempre l’umanità: è un nemico, un’intrusione che induce all’elaborazione di filosofie e religioni in grado di dare un senso alla limitatezza del tempo, così poco consona all’infinitezza dei nostri pensieri, dei nostri progetti, del nostro IO smisurato, e anzi di fare per noi qualche cosa di più, quando ci assicurano che possiamo stare tranquilli, non è così, si fa per finta e dopo, in un modo o nell’altro, con o senza corpo, nel nostro o in quello altrui, si risorge e si ricomincia a vivere.
La morte di un animale che amiamo (ed è inevitabile
riferirsi soprattutto, anche se non solo, a quelli con cui la relazione è
particolarmente ricca e articolata, cani o gatti in primo luogo) e con cui abbiamo
condiviso segmenti più o meno lunghi di vita, pone davanti ad un enigma ancora diverso, che devia
parzialmente dalle argomentazioni che ci sforziamo di adattare alla nostra realtà di umani. E’ il momento finale
di una storia particolare, storia che, nello stupore di una continua scoperta, è in grado di illuminare tante zone di noi
stessi in una dinamica di rispecchiamento, forse reciproco, che ci mette a contatto con un modo di vivere diverso,
e non solo perché i comportamenti degli
animali sono lontani dai nostri, in funzione della specie di appartenenza. La
diversità è anche di altro tipo, più misteriosa ed essenziale: noi umani ci
muoviamo lungo una direzione tesa verso il cambiamento, la crescita (e la
decrescita!), la trasformazione; loro, gli animali in un percorso circolare, che
li induce alla ripetizione degli stessi atti, senza la ricerca di un senso o di
un obiettivo che trascenda le cose di oggi. Eterni bambini, per tutta la vita
amano rincorrere una pallina, meglio se sempre la stessa, gioiscono senza
appannamenti annoiati al primo segnale della passeggiata, reagiscono con invariata
impazienza all’arrivo della zuppa. E noi,
loro compagni umani, finiamo per provare una sorta di gioia riflessa, di infantile soddisfazione nell’essere artefici
con così poco di così tanta contentezza, e ci ritroviamo senza nemmeno accorgercene
con l’increspatura di un sorriso sulle
labbra a rendere un po’ più plateali i nostri gesti per assicurarci che lo
spettacolo non venga meno. E intanto
assorbiamo inconsapevolmente un po’ di quella particolare filosofia dell’animale, tutto immerso
in un presente il cui orizzonte temporale sembra spostato solo di minuscole porzioni di tempo, ma che poi
incredibilmente è in grado di dilatarsi in funzione delle inspiegabili assenze del compagno umano. L’orizzonte diventa allora
quello del suo ritorno, di solito piacevolmente prevedibile tanto da permettere una propria precisa organizzazione
nella preparazione dei festeggiamenti quotidiani, ma altre volte, e non si
capisce mai quando né perchè, dilazionato di giorni, settimane, mesi, addirittura anni: eccoli allora il
cane, il gatto, prima immersi in un qui ed ora totalizzanti, trasformare il
tempo in attesa e modificare le
coordinate dei propri movimenti. Per poi ricominciare, tutto come prima.
Non possiamo per nostra infinita
limitatezza, entrare nei pensieri dei nostri animali e conoscere di cosa siano
popolati se non sulla base di suggestive
ipotesi; di certo diverte e commuove insieme il vederli con aria compunta prendere tanto sul serio il compito di inseguire
una mosca, oppure incrociare il loro sguardo, che si è fissato, da sotto in su,
nei nostri occhi in attesa della conferma di avere ben capito il segnale
implicito nei nostri gesti. E ci ritroviamo a giocare con loro, in
un’esperienza liberatoria che conserva il sapore dei tempi dell’infanzia. Facile, a portata di mano, l’illusione che
nulla cambi; ma dietro l’angolo c’è la consapevolezza, intrisa di angoscia,
della realtà del tempo che passa e che porta con sé, inevitabile, il pensiero
della morte. Rispetto alla quale, per dirla con Woody Allen, ci ostiniamo a non
cambiare idea: restiamo fermamente contrari.
La paura di perdere chi amiamo è
cattiva musica di sottofondo nella nostra coscienza, non ci abbandona a fare
inizio dalla prima esperienza di perdita che viviamo, e forse da prima ancora,
tramandata dalla memoria di chi ci ha preceduto: possiamo se mai controllarla e un po’ rimuoverla, mai cancellarla del tutto e impedirle, a volte, di assumere
forma nei nostri incubi. La morte del nostro cane, del nostro gatto ci è più
vicina, in questa ineludibile evenienza delle amicizie interspecifiche in cui i tempi non combaciano : se nessuno di noi sa
a quanto ammonta, nel walzer delle statistiche,
la quota personale di tempo rimasto, ben sappiamo che per legge di natura siamo
più longevi di loro e la possibilità di
perderli, prima o poi, è altamente
probabile.
A volte la morte arriva all’improvviso, altre volte preannunciata
da lunga o breve malattia: comunque sia, l’esperienza è devastante qualunque
sia lo stato o l’età di chi resta e di chi se ne va. Quando è possibile vivere
l’agonia, a rendere la cosa intollerabile è forse il silenzio degli animali, la
loro quieta attesa e sopportazione dalla quale tentiamo inutilmente di
strappare un segnale che ci permetta di capire qualche cosa di più: forse mai
come in questo momento la parola che gli manca sarebbe necessaria: vorremmo che
fosse lui a dircela quella parola, quella che consola; il silenzio è
insopportabile, come lo è lo sguardo che si spegne senza ribellione. A cosa
aggrapparci? Che cosa fare per fargli capire quanto lo amiamo e quanto la
nostra vita è stata diversa perché c’era lui ? Basteranno le nostre carezze per
consolarlo, per non fargli sentire la paura, o forse la paura è solo nostra,
forse lui è più capace e, come ha
accettato la vita per quella che era, magari è anche in grado di fare
altrettanto con la morte, ineluttabile e naturale in quella natura che sembra
così poco interessata alle vicende individuali. Quando nell’”Insostenibile
leggerezza dell’essere” Karenin,
il cane che è stato il compagno di Tereza, e l’ha amata come nessun altro individuo
ha saputo fare, sta per andarsene, la
guarda con uno sguardo in cui lei vede una terribile insostenibile fiducia. “Quello
sguardo era un’avida domanda: per tutta la vita Karenin aveva aspettato la
risposta di Tereza e adesso le faceva sapere che era sempre pronto a sapere da
lei la verità. Lui non pensava che a lei. Non aveva paura”. E quando la morte
sarà sopraggiunta, Tereza metterà nella fossa in cui depone il suo corpo il collare, il guinzaglio e la cioccolata:
senza pensieri sull’al di là, nell’eco di tante culture antiche in cui chi
resta si prende cura di chi se ne va con
i pochi gesti di amore ancora possibili, non importa quanto inutili: così non
ti mancherà nulla di quello che ti può servire: sei pronto per la passeggiata,
che ti piace tanto, e il guinzaglio mi
assicura che non ti allontanerai troppo, è così non è vero? Non ti allontanerai
troppo per andare dove io non posso raggiungerti, adesso.
Ci sono momenti in cui lo spazio
razionale della nostra mente si restringe, invaso da quello emotivo. Il bisogno di sapere, ma
forse solo di potersi illudere ben sapendo che di illusione si tratta, che non
tutto finisce qui diventa allora potente: non sono molte le teorie a cui
appellarsi: per molti la vita è
strettamente connessa alla biologia e la morte dissipa tutto. Per chi, allungando lo sguardo, si è convinto di vedere
vita nell’aldi là, il dilemma se la resurrezione contemplerà anche quella degli
altri animali, un po’ faticosamente
trova, tra le dichiarazioni di chi detiene il potere dei pensieri, qualche esternazione ad hoc: tra gli antichi
greci, Pitagora , Anassagora, Platone parlavano di un’anima immortale anche
negli animali e in fondo anche il cattolicesimo, a voler ben cercare, non
impedisce di sostenere, insieme a Giovanni Paolo II, che il soffio divino è
presente anche negli animali. E comunque non fa niente, non sono le teorie o le
autorizzazioni quelle che servono: è la ricerca di un modo che consenta di accettare
una separazione che non vogliamo sia per sempre. E così l’astrofisica Margherita
Hack, che pure vede nell’al di là solo lo sparpagliamento delle molecole che
formano il nostro corpo e niente più, affida al paradiso in cui credeva da
bambina, e non importa se non ci crede più,
la custodia di tutti gli animali amati nella sua vita per poterli lì
ritrovare. Mentre il teologo Paolo De Benedetti, pur convinto che nelle pieghe
dei testi sacri ci sia la conferma che di certo i nostri animali li ritroveremo un
giorno, non si consola della morte della sua gatta Dovesei e si arrabbia con
Dio, ammonendolo che “forse questo potevi risparmiarcelo ancora un po’” chiedendogli
poi, risarcimento al dolore inferto, di conservare l’anima piccolina di Dovesei
e intanto consolare chi resta, se può. Per poi dover concludere che però “forse tu non puoi, perché la morte è troppo
anche per te”(Teologia degli animali).
Beh, se la morte è troppo anche per Dio, come pensare che possa essere impresa
facile per noi, mortali per ineludibile destino?
Gli animali che amiamo, con la
loro, chiudono una vita che si è intrecciata visceralmente alla nostra, ma
correndo ad una velocità diversa, lasciandoci un po’ spettatori di ciò che su
di loro è successo tanto in fretta, specchio deformato di ciò che a noi sta
succedendo: tutto è cominciato così da poco…. sembra ieri…. non sono pronto….e
vedere il ciclo della vita che si dipana
e finisce è esperienza che non so tollerare.
Ma una dolcezza diversa può sopravvenire
ad avvolgere chi resta, perchè se l’augurio più bello per chi se ne va è , come
diceva il poeta Mutis Alvaro, di essere accolto dalla morte intatto non nel suo corpo, che non è possibile, ma nei suoi
sogni, loro, gli animali molto più di noi sono in grado di andarsene con lo stesso
sguardo stupito sulle cose e la totale ostinazione di un legame, restato
incontaminato, nonostante tutto.
un testo difficile, doloroso per il tema, che fa un po' paura; e commovente anche, perché non si può non riandare con la mente ai lutti passati, provati alla dipartita di un proprio compagno 'altro'animale. Mi colpisce come loro vivano con naturalezza la condizione dell'eterno tempo presente che soprattutto noi occidentali ci affanniamo con mille trucchi a raggiungere: mi viene in mente Tich Nat Han, col suo "Miracolo della presenza mentale". Forse, dobbiamo seriamente impegnarci di più a vivere come loro, così scopriremi la pienzza dell'istante, e delle sue sensazioni. E, quando sarà il momento, la speranza è che riusciremo anche a "lasciar andare" il nostro amico, con naturalezza e aore, vicini a lui fino all'ultima sua presenza su questo piano di realtà...
RispondiEliminaEh si: sono esperienze di perdita devastanti, a volte rese ancora più terribili dalla possibilità di decidere per loro il momento di mettere fine a tutto. E' per loro, ma io non lo so se è giusto davvero. E comunque ci sarebbe tantissimo da imparare, una volta che il dolore si mitiga un po'. Hai ragione Giovanni: è l'approccio stesso alla vita da mettere in discussione.
EliminaPure io ho molti dubbi sulla eutanasia, Annamaria. Per fortuna, finora, non ho mai dovuto scegliere in quella direzione.... E sto cercando di scoprire tutte le alternative possibili
EliminaInvece io sono a favore e mi dispiace aver visto la mia Kira morire in quel modo, naturale sì ma triste, avrei voluto che si addormentasse dolcemente e non con smorfie che facevano immaginare la sua sofferenza ... purtroppo per la puntura era troppo tardi
Eliminai nostri animali ci insegnano il carpe diem, ma noi siamo zucconi!!!!!
RispondiEliminaEh si, a quanto pare non ce la facciamo proprio....
EliminaOttimo l'articolo e molto toccante! Grazie.
RispondiEliminaIn realtà quando Giovanni Paolo II parla del soffio divino presente anche negli animali nulla dice di originale, ma fa riferimento al passo biblico cristiano presente in ‘Qoelet 3, 18-21’ (Ecclesiaste) dell'Antico Testamento della bibbia cristiana, che recita testualmente:
"Poi riguardo ai figli dell’uomo mi son detto: Dio vuol provarli e mostrare che essi di per sé sono come bestie. Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Chi sa se il soffio vitale dell’uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra?"
Questo è l'unico brano della bibbia cristiana che annienta inesorabilmente l'arrogante specismo antropocentrico del cristianesimo. E Giovanni Paolo II si limita a farne un timido riferimento senza volere entrare in conflitto con l'antropocentrismo che pervade tutta la bibbia.
Gli ecclesiastici cristiani (cattolici e protestanti) ignorano volutamente e per opportunismo l'alto contenuto del brano, che dovrebbe essere considerato - a sentire loro - espressione della volontà del loro Dio. Anche i fedeli cristiani lo ignorano, ma solo per motivi di sfacciata incultura. Eppure gli ecclesiastici e i fedeli non si rendono conto che trascurare - come in realtà trascurano - il suo significato equivale ad un atto di basfemia nei confronti del loro Dio. Ma quello che più è importante ed auspicabile sarebbe che i cristiani riconoscessero in base al brano citato dignità e sacralità alla vita di tutte le creature senzienti. (Federico Bartolozzi)
Caro Federico, con la tecnica non ci azzecco mai e così vedo ora questo tuo commento, sempre colto ed estremamente preparato in materia. Arriva Pasqua: quanto mai attuale, quindi. Un abbraccio.
EliminaE' abbastanza frequente subire la perdita di un familiare umano o non umano che sia. E' strano che, mentre un padre, una madre, un fratello o una sorella, un figlio o una figlia non si pensa di sostituirli, se capita con un coniuge/compagno/compagna o un animale domestico, ci si riserva il pensiero di trovare qualcuno da amare nello stesso modo. Ognuno è speciale a suo modo ma il senso del "compagno/a di vita" ce l'hai solo con chi divide davvero la vita con te, anche se non la vita intera. Un animale domestico ha questo ruolo e questo privilegio Purtroppo ce l'ha solo lui perché non è dato addolorarsi per i miliardi di animali che "dividono la vita quotidiana" con allevatori, macellai, vivisettori. Potrebbero essere compagni di vita anche loro ma non viene loro concesso, anzi, ci si guardi bene dall'affezionarsi...
RispondiEliminaCara Paola, in questi giorni più che mai tanti di noi si addolorano profondissimamente per la mattanza in corso, non diversa da quella di tutti gli altri giorni, ma più esibilta e festeggiata. Dicono che il 52% degli italiani ha "rinunciato" all'agnello pasquale: sarà giustizia quando saremo il 100%. Buona pasqua....
EliminaLa mia prima Sissi, gatta bianca, me la portò papà tirandola fuori dal taschino della giacca. La seconda Sissi, gatta bianca, me la portò mio figlio, piccina e sporca, sorda e scontrosa. La mia terza Sissi, gatta bianca, la trovò l'altro figlio, malata agli occhiuzzi: ha la coda nera e una tonda macchia nera sull'orbita vuota, come un pirata. Le abbiamo dovuto cavare l'occhio malato in sconto del fatto che nella vita precedente aveva accecato il canuzzo di cui era gelosa. Penso che Sissi Tre sarà la mia ultima micia e forse morró prima io.
RispondiEliminaTi auguro di cuore di avere altre gatte, bianche o di qualsiasi altro pelo: ti aspettano!
EliminaGuardo quegli occhi di cocker velati di bianco e quell'incedere un po' traballante e a momenti è come se il tempo si fermasse.
RispondiEliminaCerco di catturare attimi di vita e di fissarli nella mente come se fossero fotografie.
Attimi preziosi ed irripetibili.
E io voglio che salga sul letto e voglio che si accorga che sto arrivando e scenda in fretta, voglio che rubi il pane dal tavolo, che faccia la pipi' in sala, voglio quel suo odore di orecchio infetto, voglio che inizi a grattarsi o a leccarsi proprio quando sto per addormentarmi.
Voglio alzare lo sguardo e vederla, voglio averla perennemente tra i piedi, inciampare, cristonare, raccogliere quello che butta in giro, cristonare, asciugare ogni volta che beve.
Ridere a crepapelle perchè il porcellino dorme nella sua cuccia e lei gli abbaia e lui non se la fila.
Vederla tormentare la gatta, che sta al gioco e non si ribella.
Posso dire con dolorosa lucidità, che accogliere animali anziani che hanno sofferto è lacerante dall'inizio alla fine, ma quelle istantanee di vita, sono di una dolcezza e di una bellezza tale, che vale la pena vivere anche uno solo di quegli istanti.
Elena R.
Ti auguro Elena di vivere ancora un milione di volte tutto quello che stai vivendo con lei
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