martedì 10 gennaio 2023

Dei delitti contro gli animali

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Annamaria Manzoni
02 Gennaio 2023

Il video del maremmano che un paio di settimane fa, in Salento, per aver fatto irruzione in un pollaio, è stato legato al paraurti di un’auto e trascinato fino a incontrare un’orribile morte, ha fatto il giro del web. Ma è solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, fatta di maltrattamenti ma anche di caccia, vivisezione, avvelenamenti di massa, corse clandestine. “L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo – scrive Annamaria Manzoni -, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura. In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne… risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile…”

Ci risiamo: nei pressi di Santa Cesarea Terme (Le) un cane, un paio di settimane fa un maremmano reo – a quanto pare – di avere ucciso per fame due galline, è stato legato al paraurti di una macchina e trascinato fino a incontrare un’orribile morte. Autore dell’ignobile gesto il proprietario delle galline, un uomo anziano, che lo ha costretto a correre alla velocità dell’auto fino a quando non ce l’ha fatta più: a quel punto il cane si è lasciato andare ed è stato trainato sull’asfalto. Una guardia ambientale (Dania Carelli, che ha poi dato il nome di White al cane) li ha incrociati: con ammirevole determinazione ha costretto l’uomo a fermarsi e ha fatto intervenire le forze dell’ordine. Sta facendo il giro di molti giornali e siti on line la foto che vede il povero animale a terra, morto, ancora umiliato dal cappio al collo, e, sullo sfondo, (oscurato dai media main stream, ma non dai social) l’autore di tanta nefandezza, mano in tasca e sguardo altrove.

Episodio in drammatica fotocopia di quello che a Priolo Gargallo (Sr, maggio 2019) ha visto un altro cane fare identica fine ad opera di un altro sessantenne che ha poi gettato in un campo, a mo’ di spazzatura, quel che restava di lui mentre era ancora in vita: Matteo (questo il nome con cui ci si è poi riferiti alla povera bestia) è morto poco dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato portato dai soccorritori, allertati da due coraggiosi ragazzi, che avevano avuto la prontezza di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa dell’auto.

Lecito pensare che in entrambi i casi, in assenza di testimoni, il rinvenimento dei corpi martoriati dei cani non avrebbe indotto a nessuna indagine, perché collegato a fatti di consueta malvagità, come dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di torture, ai quali solo in casi assolutamente eccezionali fa seguito al più un brevissimo trafiletto su qualche notiziario locale particolarmente sensibile. È auspicabile che l’indignazione sollevata da questo ennesimo episodio non si esaurisca in un orrore solubile in breve nell’indifferenza dell’abitudine, ma costringa a riflettere su quale possa essere il percorso di formazione di quella oscenità che porta degli uomini a infierire contro esseri incatenati e indifesi, insensibili alla sofferenza che urla sotto i loro stessi occhi, e anzi pervicacemente determinati a portarla a termine. Fino alla morte. Siamo di fronte al male allo stato puro: ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di menti lucide; non delitti d’impeto, generati da emozioni che esondano e obnubilano i pensieri, ma massacri precisi e scrupolosi.

I cupissimi tempi che stiamo vivendo, fianco a fianco con l’imperversare di una guerra, feroce mezzo di risoluzione dei conflitti che ci eravamo illusi di potere archiviare nella barbarie del passato, sono un pozzo senza fondo di comportamenti simili: tra tutti l’ignominia delle camere di tortura è quella che più si attaglia alla dinamica che vediamo proposta e riproposta negli episodi di cui stiamo parlando. E che, lo sappiamo fin troppo bene, sono solo la punta dell’iceberg della violenza gratuita contro i nonumani, che solo in casi ripresi edamplificati dai media raggiungono l’opinione pubblica: la cagnolina Pilù (Pescia, 2015), orrendamente torturata a morte per ritorsione contro la fidanzata da un tizio, che completa poi la sua opera con la pubblicazione on line del video con tutte le fasi dell’orrore; il gattino ucciso a bastonate dal bidello in una scuola elementare di Gioia Tauro perché reo di essere entrato abusivamente nel cortile; il cane Angelo massacrato per divertimento da tre balordi a Sangineto con il vanto successivo di un filmato sui social. Solo per citare i più famosi: per avere dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno, più che mai utili i “Rapporti sul maltrattamento Animale in Italia”, elenchi dei fatti di cronaca registrati dai media in due diversi anni, stilati dalla lega antivivisezionista LEAL: basti dire che gli episodi riferiti riempiono centinaia di pagine.

Sarebbe interessante se i processi (se e quando vengono celebrati nei tribunali: quindi quasi mai) andassero a scrutare nel profondo la personalità di tali individui, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della loro psiche; ma l’uccisione di un animale, ancorché ritenuto d’affezione e quindi più stimabile degli altri, non è considerata degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti, perizie, psicologi e psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un animale, neppure se sollecitata se non altro dalla preoccupazione indotta dai tanti studi che mettono in luce il link comprovato tra la crudeltà agita sugli animali umani e quella sui nonumani, che dovrebbe spingere a ben diverse reazioni. In assenza dell’auspicabile scandaglio del mondo psichico dei colpevoli condotto con i mezzi offerti dalle discipline deputate a farlo, sono comunque i fatti stessi a parlare: e dicono di personalità in cui la violenza è evidentemente il linguaggio conosciuto, la lingua madre imparata, la modalità di relazione e di reazione, il modo consueto per affermare il proprio potere e sancire la propria superiorità.

Se ogni persona è quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con i modelli appresi e con le vicende di tutta una vita, anche questi personaggi avranno pure una loro biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della brutalità di cui sono portatori; andare a ricostruirli aiuterebbe a meglio conoscere (ed evitare) i percorsi che sollecitano l’espressione delle parti peggiori di noi. Parti che è lecito supporre che avranno già avuto modo di manifestarsi nella loro vita, perché le nostre mani così come la nostra mente non improvvisano ciò che non conoscono e ciò che non sono: lo vanno imparando su altri corpi, su altre vittime. Fino a divenirne esperti e cultori.

Ma c’è dell’altro: perché gli atti privati sono sempre inseriti in un contesto non solo familiare, ma anche di portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su cui non si riflette mai abbastanza: già Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, grande concentrato delle mostruosità che la mente umana può ideare, aveva affidato a I sommersi e i salvati la scrittura di pagine preziose sulla considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente ordinari, che il contesto è in grado di modellare. Non mostri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Senza rendercene conto, ce ne vergogniamo tanto da accusare non noi stessi, ma qualcun altro con cui non abbiamo da condividere neppure l’appartenenza alla specie umana: non è un uomo, ma una bestia è allora il mantra salvifico a cui viene affidata la difesa della nostra innocenza come individui, ma anche quella della nostra specie. Quindi umano come sinonimo di nobile, bestia e animale come sinonimi di brutalità e indecenza. Meccanismo profondamente ingiusto dal momento che gli animali nonumani, che sono vittime, vengono trasformati implicitamente in colpevoli, in quanto sarebbero i contenitori di quel male che non riconosciamo in noi.

L’importanza del contesto è tale per cui anche delitti che appaiono individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità di un singolo individuo, in realtà risentono di variabili che vanno a costituirne il brodo di cultura.

In fondo la lezione un po’ la stiamo imparando: è da qualche anno, per esempio, che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva dibattiti sulla cultura e i pensieri dominanti che lo rendono possibile. Si comincia in altri termini a capire che il contrasto ai femminicidi non può prescindere dalla necessità di ridefinire le convinzioni diffuse che restano ancora intrise dei residui di quanto veniva serenamente sostenuto fino a pochi decenni fa, quando veniva dato diritto di cittadinanza al delitto d’onore: si sanciva , anche dal punto di vista giuridico, la convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito maschile dovesse essere oggetto di attenzione e cura. Pensiero che sopravvive sotto pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di comportamenti di uomini ancora intrisi di convinzioni fortemente sessiste. Lo dice bene Francesca, figlia di Lia Rizzone Favacchio, uccisa dal marito nel lontano 1973, quando, richiesta di dire se nel corso di tanti anni abbia potuto trovare una motivazione al gesto omicida di suo padre, risponde solo ”Ha ucciso perché figlio di una cultura patriarcale”. Non altro che la convinzione del proprio potere, che arriva a esprimersi come diritto di vita e di morte, è il motore propulsivo di gesti altrimenti incomprensibili.


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Riflessioni di questo genere sono tutt’altro che estranee alle vicende oscene di questi animali uccisi barbaramente, con lucidità e freddezza, nella convinzione di poterlo fare giusto perché appartenenti alla specie umana, notoriamente superiore alle altre: l’assenza quasi assoluta di conseguenti condanne giuridiche non può che rafforzare la convinzione: si può fare, è lecito e normale, come dimostra l’assenza di conseguenze.

Il male fatto agli animali è una realtà che, per limitarci al nostro paese, a macchia di leopardo, investe tutte le regioni. Ma non si può tacere che vi siano luoghi in cui la concentrazione è più preoccupante, non certo per caratteristiche genetiche della popolazione ma perché l’ambiente con le sue variabili ne costruisce le specificità. Sulla base delle informazioni raccolte, risulta per esempio che il piccolo paese in cui era stata portata a termine la tortura del cane Matteo solo poche settimane prima era stato teatro, a opera di responsabili rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme, prima torturato e poi impiccato. Se si allarga lo sguardo, la visuale ingloba territori più vasti, che vedono per esempio la Sicilia spesso in una posizione tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue strade vagherebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la bellezza di 100.000 randagi, triste primato europeo. Nemmeno della Calabria esistono registri sul randagismo, ma chiunque la visiti non può che rimanere basito dai branchi di cani randagi visibili ovunque. È innegabile che, in buna parte delle regioni del sud, non vengono attuate le previste politiche di sterilizzazione e scarseggiano adeguate strutture di accoglienza; le periferie delle città si trasformano allora in discariche di cucciolate indesiderate e i canili esistenti fungono da depositi di cani dismessi. A parte la squalifica morale, questa situazione comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro stesso numero strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi, quindi scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo, può succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a danno di una persona: e allora la reazione che era lì pronta ad esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi, perché, se la vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo vergognare, ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della collettività.

È all’interno di queste dinamiche che periodicamente si registrano avvelenamenti di massa, qualcuno incapace per la prepotenza dei numeri di sottrarsi ai riflettori dei media, come fu il caso delle decine di cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma ci sono cronache ancora più spaventevoli che parlano di animali inermi che neppure tentano di sottrarsi all’infierire su di loro di umani furiosi, fino alla morte.

È necessario riflettere su come anche questo genere di situazioni alimenti comportamenti desensibilizzati: nei luoghi in cui la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali in evidente difficoltà e stato di bisogno, in cui l’abitudine contempla abbandoni, maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: prepotenze e violenze, essendo tanto diffusi e non perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili.

A tutto questo fa da contrappunto una straordinaria coraggiosissima abnegazione di tanti volontari, tra i quali gli stessi che denunciano i fatti: sono tanti quelli che condannano, cittadini (e soprattutto cittadine) sensibili, che lottano strenuamente contro questo stato di cose, pagando prezzi elevati in termini di sofferenza psichica, e non solo: ma non possono supplire con le sole loro forze alla latitanza delle istituzioni. E, in una società civile, la strada non può essere quella di sperare nell’empatia personale che supplisca alle colpevoli negligenze di chi avrebbe il dovere di intervenire e non lo fa.

Scandaloso che da anni la soluzione sia stata individuata nel continuo spostamento dalle regioni del sud a quelle del nord di cani e gatti randagi o reclusi in rifugi dal fine pena mai: realtà dilagante tanto che le staffette sono ormai diventate un’istituzione, con i puntualissimi arrivi settimanali in luoghi precisi delle città del nord, con il loro carico di vite sospese, disorientate e a volte pietrificate dalla paura, purché lontano dai luoghi dove la vita è una scommessa quotidiana. A quanto pare solo gli amministratori locali persistono a ignorare testardamente uno stato delle cose sotto gli occhi di tutti e a considerarsi esentati dal dovere di occuparsene.

È in questa ottica che urge approvare leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali: all’interno dei quali non possono certo essere ignorate le sagre che abusano indecentemente di loro con tanto di autorizzazione delle autorità regionali (in)competenti; le corse clandestine dei cavalli, che comportano la chiusura al traffico di intere zone di città, off limits per la gente comune per dettato delle varie criminalità organizzate. Le autorità, se c’erano, dormivano.

Per completezza di argomentazione, il discorso dovrebbe estendersi alla caccia, alla pesca, ai macelli, alla vivisezione… Ma fermiamoci ai maltrattamenti considerati penalmente punibili: finché le pene resteranno blande e/o non applicate, torturare un animale sarà interiorizzato come lecito, di certo tollerabile, da derubricare nel nostro codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto come tale viene trattato dalla giurisprudenza. Si tratta di un comportamento grave, perché sottostima la funzione e il potere delle leggi, che, modificate nel tempo in funzione della cultura che evolve, vengono poi interiorizzate e concorrono a trasformare non solo i comportamenti, ma anche la morale.

È poi improcrastinabile occuparsi della prevenzione, che ha inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle fasce più giovani, al rispetto per tutte le forme senzienti, dalla costruzione progressiva di un pensiero e di un sentire in cui qualunque tipo di efferatezza nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda a un allarme sociale, in cui l’attenzione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni progetto educativo.

Discorso non facile, certo, soprattutto nei tempi nefasti che sembrano tornare nella convivenza seppure indiretta con tutte le crudeltà belliche in atto. Ma non si può cedere alla tentazione di pensare che ci sia ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi e dare così giustificazione all’immobilismo e all’assuefazione, che è matrice di passività e indifferenza: è invece doveroso reagire in modo adeguato, consapevole, strutturato, non solo dando la stura alla rabbia reattiva di un momento. Il cane White, il cane Angelo, il cane Matteo e tutti gli altri senza neppure un nome non avranno mai giustizia, perché di giusto non ci sarà mai nemmeno l’ombra per loro, morti di una morte atroce per mano di individui cinici, sadici, violenti; è il regno dell’ingiustizia quello in cui hanno vissuto e sono morti, senza averne colpa, come succede a tanti diseredati sulla faccia della terra, che cercano di strappare ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita è l’unica cosa che possiedono, per quanto umiliata e offesa.

Infinitesimale è il contributo che ognuno di noi può dare alla necessaria trasformazione dello stato delle cose: comunque sia, diamolo, assicurandoci, con le parole di Walt Disney, di non fare mai meno del nostro meglio.


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sabato 22 ottobre 2022

LA GUERRA E GLI ANIMALI

 Annamaria Manzoni  su Comune-info 17.10.2022

 

 

 

 

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 Quanti cani sono morti dall’inizio della guerra in Ucraina? Quanti cavalli? Quanti gatti? Quanti maiali? Domande che nessuno si pone, perché sconvenienti, forse immorali quando lo scenario è quello di parchi gioco bombardati, bambini torturati, edifici crollati con il loro contenuto umano ridotto in briciole.

Loro, i nonumani, non vengono conteggiati tra le vittime degne di conteggio perché non sembrano neppure avere il diritto di essere inseriti nella categoria delle vittime, relegati in un limbo, in una terra di mezzo tra gli umani da una parte, della cui sorte è doveroso almeno dare notizia, e l’ambiente, con case rase al suolo, ponti fatti saltare, immensi campi che non produrranno cibo, dei quali ci vengono proposte le immagini.

Eppure il loro tributo di sangue è enorme, sangue innocente come lo è quello dei bambini, degli indifesi, degli oltraggiati senza colpa e senza senso.

martedì 20 settembre 2022

ELISABETTA II, TRA CORGI E FAGIANI

    


Post mortem, si sa, chi se ne é andato sembra entrare di diritto nel consesso delle migliori persone: cordoglio, tristezza, rimpianto e quell’inquietante  senso di ineluttabilità, di fine segnata che prima o poi riguarderà ognuno dei sopravvissuti , appannano le emozioni negative e trasformano anche  i sentimenti meno nobili che magari erano stati l’unica linfa di una conoscenza non apprezzata nel loro contrario. Potenza della nostra psiche, capace di facili giri di valzer tra ammirazione e denigrazione, stima e disprezzo

venerdì 22 luglio 2022

L'abbandono degli animali

sabato 30 aprile 2022

PERUGIA-ASSISI: DOVE SI FERMANO PACIFISMO E NONVIOLENZA?



“Chi è nonviolento è portato ad avere simpatia particolare

 con le vittime della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie,

dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati,

i miti e i silenziosi, e perciò tende a compensare queste persone

 ed ogni altro essere (anche il gatto malato e sfuggito)

con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia

del mondo ottenuta buttando via le vittime”.

 In questi dannati tempi di guerra, la riproposizione della marcia Perugia-Assisi assume una valenza più forte del solito: quello che, “dalle nostre parti”, sembrava per sempre superato, ci sta invadendo con la furia di un incubo, da cui ci si aspetta inutilmente un risveglio salvifico che ci riimmetta nel mondo che credevamo fosse il nostro. E così quella che da oltre 60 anni sembrava avere il sapore di una celebrazione, capace di onorare i valori della pace e della nonviolenza in un’atmosfera festosa, diventa oggi una marcia definita straordinaria in tutti i sensi: fuori dall’ordinario di un omaggio  routinario alla pace; appello drammatico a che la ragione umana, esaltata come certezza fin dagli albori dell’illuminismo, torni ad essere il navigatore di riferimento; richiamo angosciato alla intollerabilità degli orrori in atto. 

mercoledì 23 marzo 2022

Da Kiev a Kherson

   Pubblicato su Comune-info, 22 marzo 2022      

     

  

 

       C’è l’Ucraina delle persone comuni, coloro che da anni vivono in una condizione fortemente precaria e difficile. Ci sono tanti bambini e bambine, ma anche ragazzi e ragazze che vivono negli orfanotrofi. Poi ci sono giovani come Igor, che all’uscita dall’orfanotrofio ha trovato aperta una strada solo, arruolarsi nell’esercito ed essere ucciso nel Donbass. Infine ci sono donne e uomini migranti che ogni tanto ritornano nel paese. Fermi immagine di una full immersion, datata 2019, da diverse località dell’Ucraina, luoghi dai quali oggi arrivano notizie di persone in fila per il pane, di ospedali pediatrici bombardati, di infiniti allarmi antiaereo, di milioni di persone in fuga senza più nulla.

 

Sono 550 i kilometri che si percorrono da  Kiev da Kherson. Si lascia una città ben poco diversa da tante altre sparse in Europa: peculiari sono chiese e munumenti, esposizioni di foto che richiamano le sofferenze e gli eroismi di battaglie e rivolte recenti, mentre l’umanità che popola le strade gode (o soffre) dell’omologazione dilagante: i giovani sono  uniformati da una moda che pare obbligata, con tanto di auricolari alle orecchie; nella grande piazza Maidan, che è il cuore pulsante della città, uno sfavillio di acque che si innalzano e scendono raccoglie intorno bambini, famiglie, coppie. Il ricordo della storia anche drammatica, vicina nel tempo, sembra  sopito, conservato tutto negli opuscoli informativi, ma pronto a riesplodere come la tragedia dei giorni nostri dimostra. Prima,  è facile non pensarci: a sera l’aria estiva è dolce e la voglia di normalità diffusa ovunque. I bar sono tanti, si mangiano panini per strada e, qua e là, l’offerta anche culinaria è ampia, con tanto di incredibili scelte vegane, che parlano di imprevista attenzione: ai turisti? Alla gente del posto? Agli animali e all’ambiente? Non lo so, ma conforta. Le acque del Dniepr attraversano ampie la città: tranquille,  consueto polo di attrazione con le sensazioni primordiali che ogni corso d’acqua non manca di sollecitare.  

Per andare a Kherson, dove io sono diretta, si può prendere un aereo, ma non è male l’idea  di  attraversare con un autobus un pezzo di Ukraina: chi lo sa che non ci si possa trovare immersi in quella suggestione visiva di grano, di girasoli, di campagna infinita che accompagna l’immaginario stesso di questo grande paese: immaginario che mezzo secolo fa il film  I girasoli alimentava, richiamando, a cominciare dal titolo, campi sterminati di fiori gialli, ondeggianti, a proteggere per sempre i corpi delle decine di migliaia di soldati italiani, vittime dell’orrore della seconda guerra mondiale. Fino ad arrivare a Ogni cosa è illuminata, e al viaggio di Jonathan Safran Foer nel paese e nella storia dei suoi nonni, storia familiare struggente di ricordi e rimpianti, alla ricerca di Augustine, la donna che aveva salvato il nonno ebreo dallo sterminio nazista e aveva messo umana pietà e forse amore al di sopra delle ragioni (e dei torti) di ogni stato.

Per prendere l’autobus bisogna raggiungere la periferia della città e mischiarsi con la varia umanità che formicola all’interno e nei pressi della stazione, odorosa di ogni frittura e indiscutibilmente maleodorante. Il pulmino locale è piccolo: la sicurezza dei posti prenotati può essere mantenuta solo a suon di gomitate, che mi vedono inesorabilmente perdente;  l’aria condizionata assicurata all’acquisto del biglietto è in realtà una provvidenziale apertura in alto, tra le pareti del mezzo e il tettuccio. Ma l’elemento di sicuro più …suggestivo è la temeraria guida di un autista che, del tutto indifferente ad ogni elementare principio di prudenza, affronta la strada, a tratti dissestata, ad acceleratore schiacciato: ogni curva provoca uno scostamento violento destra/sinistra dei passeggeri. Io impatto ripetutamente contro i vicini di sedile, che per altro si affannano ad assicurarmi che siamo nelle mani di un  autista molto esperto.

Vicini di viaggio con i quali è facile entrare in contatto, vista l’imprevisto annullamento delle distanze fisiche,  ma vista anche  l’inevitabile curiosità solleticata da una  improbabile presenza straniera, la mia: che ci fa lei qui? Che questa è roba da  ukraini. Ed è facile incrociarsi con  spicchi di mondo altro: il signore anziano alla mia sinistra è un muratore, dal viso segnato e rassegnato, che parla di fatica e sacrifici: lui è emigrato in Polonia per provare a sopravvivere ed è di ritorno per poco tempo per rivedere figlia e nipotini.

Del  ragazzo possente alla mia destra, capace di un ottimo inglese, vengo invece a sapere che è un combattente del Donbass: parla della difesa del suo paese e del bisogno di giustizia contro la prevaricazione russa con foga, con una convinzione che annulla ogni paura e un orgoglio che esonda da ogni parola e gesto mentre mi mostra sul cellulare la foto di lui e dei suoi compagni in divisa militare, sorridenti e decisi. Percepisco una distanza abissale rispetto al  nostro mondo, dove gli ideali di una giustizia da difendere a prezzo della vita, propria e altrui, appartengono se mai ad altre generazioni, spazzati via da decenni di una cultura che ha tolto diritto di cittadinanza all’idea stessa di guerra: perché la vita non è sui tank, nelle marce sfiancanti, nelle mutilazioni e nelle morti oscene:  la vita è altrove. Ripenso oggi a quell’incontro: e posso solo immaginare come davanti al massacro in atto il senso di appartenenza  alla grande comunità ukraina sia riesploso.

A lui ho risposto con poche frasi infarcite del pacifismo che è la mia cifra. Come lo è di tanta parte delle persone che vivono nei nostri paesi: ma non riesco a sentirmi a mio agio. Lo sarei se,  accanto all’dea tossica e nefasta di guerra, ci fossimo contestualmente liberati  come di un vestito in fiamme della costante e proficua produzione di armi: noi, gente comune, di tempo  ne abbiamo dedicato davvero troppo poco a riflettere sulla nostra realtà di grandi produttori di armi, tanto grandi da piazzare la nostra pacifista Italia, quella che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle contese,  al nono posto nella top ten (ultimo rapporto SIPRI, Stocholm Internationa Peace Research Institute) degli esportatori che non hanno sospeso né diminuito la propria attività neppure durante l’emergenza coronavirus. Mentre ogni mass media ci informava a tempo pieno su come proteggerci dalla devastazione di un terrificante virus, invisibile ad occhio nudo, il nostro governo, il nostro parlamento, le industrie sparse sul nostro territorio non hanno smesso un solo giorno di produrre altri strumenti di morte: destinandoli però a   paesi lontani dal nostro, dalla cronaca e dai riflettori, ben al di fuori della gittata delle stesse armi; tanto lontano da consentirci di preservare una salvifica illusione di innocenza. Che si sta sfaldando nel report dei 350 autoblindati Lince venduti a Mosca dall’italiana Iveco e che fronteggeranno ora altre armi italiane queste però consegnate all’Ukraina. L’italiana Leonardo, ex Finmeccanica, nel 2019 è risultata essere la 12esima produttrice al mondo  (ancora dati SIPRI) : qualcuno queste armi le dovrà pure comperare e poi anche usare.

Ce lo aveva spiegato così bene quello che ha continuato ad essere considerato un comico, quell’Alberto Sordi che nel 1974 ci aveva avvertito che  Finchè c’è guerra c’è speranza. Ne abbiamo preso atto e non ci abbiamo pensato più: hanno continuato a pensarci per noi politici e industriali. Non posso fare a meno di fare queste considerazioni oggi, mentre ripenso al giovane ukraino che quello in cui credeva era pronto a difenderlo  pagando sulla e con la propria pelle, a fronte dei grandi del mondo a cui gli ideali  (altrui) servono solo a produrre ricchezza in proprio. E non posso fare a meno di chiedermi se sia ancora vivo, mentre arrivano notizie  di giovani e giovanissimi uomini e donne, fino a ieri artisti, geni della matematica, sportivi di fama, gente comune, operai, studenti, contadini, che non hanno esitazioni a pagare con la vita la solidarietà con il proprio popolo offeso e ferito. Magari imbracciando armi che nemmeno sanno usare; cercando di soccorrere gente in fuga senza meta; restando uccisi mentre portano cibo in canili abbandonati per provare a pagare in prima persona anche il debito di generosità che la specie umana conserva nei confronti degli altri animali, e vanno  a  soccorrere  quelli che la follia umana ha prima schiavizzato e ora lascia a morire di fame e di terrore.  

Non ho incrociato distese di grano né di girasoli nel mio breve viaggio: ma i frammenti di vita che mi hanno sfiorato si sono saldamente insinuati nel fondo della mia mente, dove continuano ad agitarsi.  

A Kherson,  che è la meta del mio viaggio, arrivo a sera: ampia pacifica cittadina al mio arrivo, ora, lo so,  una poltiglia di macerie e disperazione: allora, una vita fa, ma era solo l’estate del 2019, quieta e un po’ sonnolenta, anche lei cullata dalle anse del Dniepr nel suo percorso verso il Mar Nero. Vasti viali e un centro che pullula di gente: una donna,     con il fazzoletto sulla testa, il viso cotto dal sole e gli occhi azzurro immenso è presenza costante all’angolo di una strada: il suo cane è sempre sdraiato vicino a lei, che è lì a vendere sigarette: le vende ai giovani militari e  ai passanti, una o al massimo due a ognuno per pochissimi grivni, qualche centesimo di euro. Quando chiedo  di comprarle un pacchetto intero, convinta di abbreviare la sua giornata di lavoro, cozzo contro un testardo rifiuto, di cui proprio non capisco la ragione, ma è lei che gestisce la trattativa e non mi resta che accontentarmi delle due sigarette che mi destina. Irrazionalità senile la sua? Solo un automatismo incorreggibile? Senso di giustizia oltre ogni dire per cui ogni bene va diligentemente  diviso?  Non lo so: mi adeguo e me ne vado con il mio esiguo bottino, che è in grado comunque di allargare il sorriso di un uomo a cui lo consegno, pochi passi più in là. Di certo, al di là dell’immediatamente percepibile, arrivano da ogni dove segnali della condizione generale di vita, così precaria e difficile, nonostante le strade larghe, che danno respiro, e le tante  piccole case costruite in proprio, che possono contare su spazi verdi intorno.

E’ qui che si trova una grande scuola che anche varie associazioni italiane hanno nel tempo contribuito a sistemare. Fino a poco tempo fa si chiamava orfanotrofio, col tempo ha cominciato ad ospitare nei dormitori, accanto a bambini e ragazzi privi di qualsiasi riferimento familiare, anche altri che un parente ce l’hanno: spesso si tratta di una nonna, unica persona che supplisce a genitori scomparsi: alcool, emigrazione, violenza spesso falcidiano le famiglie e solo le persone più anziane sembrano avere la determinazione e la generosità per provare a preservare un brandello di vita possibile ai loro nipoti. Ma la difficoltà a trovare cibo per ogni pasto le induce a vedere nell’istituto una possibile alternativa: almeno lì si mangia.

Il posto è grande, ristrutturato, accogliente:  ma , dopo il tramonto l’atmosfera è quella di ogni istituto: finite le attività che riempiono il tempo di vita e di rumori, tanti bambini e ragazzi, maschi e femmine,  nelle camerate e nei corridoi hanno imparato a contare su se stessi per scambiarsi compagnia, a volte accudimento e affetto, altre solo indifferenza: perché è già tanto complicato pensare a se stessi quando si è così piccoli e di affetto se ne è conosciuto talmente poco da non essere in grado di distribuirlo ad altri.

Ex ospiti dell’istituto, ora adulti, raccontano le regole del posto e le storie personali. Quando compiono i 18 anni, i ragazzi non possono più essere ospitati e devono arrangiarsi, per conto loro, nei casi migliori con l’ausilio di borse di studio che consentono a qualcuno di proseguire con gli studi; ad andarsene precocemente sono a volte le ragazze che, giovanissime, restano incinte: vengono allontanate forse per evitare la diffusione di “modelli” di vita che sarebbero pericolosi all’interno della comunità, con fenomeni di imitazione; e comunque la presenza dei neonati in arrivo non troverebbe un ambiente strutturato in modo adeguato. Alcune storie di vita sono davvero “troppo”:  Olga, che in questi giorni è qui solo in visita, dall’istituto se ne è andata un paio di anni fa: c’era entrata molto piccola insieme alla sorellina e ad un fratello quando si sono trovati senza il padre, accoltellato a morte dalla madre stanca di soprusi impuniti e leì sì punita con il carcere. Una volta uscita, la madre inizia una nuova relazione e nasce un altro bambino; come “in un libro scritto male” si ammala e muore e anche il quarto figlio entra in istituto. Quando Olga diventa maggiorenne, secondo una norma a noi estranea, deve firmare per acconsentire alla sua adozione. Lo fa, ma la ferita di tutte queste separazioni è una cancrena: si adopera in favore della sorella, prestissimo divenuta madre anche lei, prende le distanze dal fratello più grande che è già sulla scia di un padre violento, e impara rapidamente l’arte di arrangiarsi in un mondo in cui solo i più temprati sopravvivono: lei è di rara intelligenza, lucidissima a cogliere le situazioni e ci prova a riscuotere i suoi crediti con la vita. La partita è in corso.

Aleksandra è prova provata di quanto l’accanimento a volte non trovi giustificazione: una vita in istituto perché orfana, con l’enorme fortuna di un breve viaggio in Italia grazie all’intervento di associazioni. Una volta adulta, uscita da poco dall’orfanotrofio, è vittima di un incidente che la immobilizza per sempre su una carrozzella.

Igor viene ricordato da chi lo ha conosciuto per avere trovato l’unica strada aperta, all’uscita dall’istituto, nell’arruolarsi nell’esercito e finire la sua breve vita disperata, ucciso  nel Donbass.

Ogni viso, e sono tanti,  una storia che vorrebbe essere raccontata, degna però per tragedia e ingiustizia di ben altro che poche righe. Ma alcuni fotogrammi dalla mente non se ne vanno proprio. Sono quelli di un istituto per bambini piccolissimi, uno di quelli che fino a pochi anni fa, prima che le norme divenissero più rigide, erano setacciati da potenziali genitori adottivi provenienti da paesi occidentali, sedotti dall’incanto di quei visi e favoriti da leggi comprensive. E’ un incredibile spettacolo quello che si apre nelle stanze della struttura : i piccoli...piccolissimi, quelli che hanno meno di una anno, sono chiusi uno per ogni lettino  a sbarre, ognuno  unito  all’altro sul  lato più corto, sormontati da un secondo e un terzo piano, vale a dire da altre file sovrapposte di lettini: l’impressione stringe alla gola, mentre il personale non rivela alcun  imbarazzo: lo spazio è questo: qualche idea migliore? Gli altri bambini, un pochino più grandi, sono in un’ampia sala, vestiti solo di un pannolone, ordinatamente seduti ai tavolini della merenda. Ci guardano seri, paciocconi, con gli occhi interrogativi: nessuno piange, nessuno fa richieste. Il silenzio è irreale, il tempo è sospeso, le domande si affollano. Chi è già venuto più volte in questi posti sa che, alla diffusa richiesta di medicinali necessari ai bambini, si deve rispondere evitando di lasciare  soldi, che prenderebbero direzioni variegate, e andando di persona  a comperare i farmaci da consegnare. Senza esagerate illusioni: perché anche i farmaci possono diventare merce di scambio, quando i bisogni sono tanti e incombenti. Resta doveroso astenersi da qualsiasi giudizio, che sia calato dall’alto del nostro benessere.   

Questi e tantissimi altri ancora sono i fermi immagine di una breve full immersion in Ukraina:  ora da quegli stessi luoghi arrivano notizie di persone in fila per il pane falcidiate, di ospedali pediatrici bombardati, di milioni di persone in fuga senza più nulla. Le comunità risultano occupate da guarnigioni russe; i bambini più piccoli sono stati spostati in luoghi che al momento non è dato conoscere, mentre i ragazzi un po’più grandi sono sparsi ovunque, alla mercè di ogni pericolo. Ex ospiti delle comunità, emigrati nelle nazioni vicine inseguendo sogni o solo sopravvivenza, stanno tornando nel loro paese in grande numero per andare a combattere. C’è poco da mangiare e persino cibi poveri quali le patate, fino a poche settimane fa alla portata di quasi tutti, assurte nelle campagne a  moneta di baratto, sono diventati preziosi.

L’orologio della storia, impazzito, sta girando in senso antiorario mentre  ci si chiede quante poche ore siano bastate per buttare all’aria decenni di fatiche e di speranze. Ci si chiede che ne è oggi di quei bambini e che ne sarà di loro, nel caso in cui riuscissero a diventare grandi: stanno provando sulla propria pelle le peggio   manifestazioni di quella crudeltà umana, a torto non inserita tra i sette peccati capitali, accanto alla stupidità come ottavo, che sono la cifra della nostra specie. Loro sono tra gli ultimi arrivati su questa terra, ma le precoci lezioni di prepotenza e prevaricazione sono impartite con corsi accelerati. Fortunati coloro che, davanti allo sfacelo del concetto stesso di umanità hanno qualcuno, nell’alto di qualche cielo,  a cui chiedere perdono: magari si possono illudere di ottenerlo.