giovedì 22 dicembre 2016

Non fare l'asino, regalalo! Come tormentare gli animali e sentirsi generosi



Viene giudicata originale, persino un  po’ impertinente la trovata della Caritas altoatesina di  promuovere quest’anno un modo alternativo di festeggiare un natale che sia solidale anziché consumistico: sì, perché  non pensa solo agli alimenti per le persone bisognose dell’Alto Adige, alla legna per gli anziani della Serbia, alle scarpe per i bambini boliviani, agli  alberi da frutta per l’Etiopia, alle sementi per Haiti o a un pozzo per una comunità del Kenia, ma si compiace del proprio anticonformismo nel proporre come regalo a comunità bisognose un asino o una capra, che vanno ad arricchire il parco-animali delle ormai usuali mucche, offerte come dono da altre associazioni umanitarie.
Le battute si sprecano: e quindi l’asinello impacchettato  con tanto di  fiocco sopra è  pretesto per immancabili spiritosaggini sullo stereotipo della presunta stupidità della sua specie: non fare l’asino! Oltre all’uso, anche lo scherno, tanto alla luce di cause  nobili tutto si può sdoganare.
Prescindiamo innanzi tutto dal fatto che esseri viventi vengano mischiati ed equiparati a cose: asini o scarpe fa lo stesso: e siamo già sul terreno scivoloso di una pericolosa confusione da cui le altre hanno origine. Nessun dubbio che il rispetto per gli altri animali sia tanto più imprescindibile quanto più le condizioni di vita sono tali da non assorbire ogni energia per la propria sopravvivenza e possano concedere quindi  spazio anche per la  cura degli altri: superfluo dire che non è per esempio perseguibile un’adesione al veganesimo nelle comunità del Senegal, che hanno porti pescosissimi a fronte di una miseria eclatante e pervasiva in tutto il territorio. Questo  mentre la gran parte del mondo occidentale, a pancia debitamente riempita,  considera il  non nutrirsi con prodotti di origine animale una scelta masochisticamente francescana, foriera di rinunce iperumane, novella impresa di Sisifo, impraticabile se non grazie ad una forza di volontà che definire epica sarebbe poco: il tutto in presenza di ipermercati strabordanti di qualsivoglia cibo alternativo.
In questa ottica chiedere a comunità in grande difficoltà di preoccuparsi dell’asinello, della capra o della mucca  suonerebbe stonato, provocatorio, laddove gli stessi animali sono usati e sfruttati da un’altra parte di mondo per motivi lontani mille miglia da logiche di sussistenza.
Ma il problema esiste ed è doveroso porselo; perché mai devono essere sempre e comunque gli animali ad essere messi sotto l’ultimo dei gradini a fungere da vittime pagando il prezzo più amaro di tutte le ingiustizie? Non sono i più diseredati a dover rifiutare l’offerta, sono i donatori a non essere in diritto di farla: nel momento in cui questo diritto se lo arrogano, sostengono ancora una volta il proprio  ruolo di padroni di qualcuno (loro pensano di qualcosa) che di fatto non appartiene loro. L’alternativa non è ovviamente quella di disinteressarsi di chi non ha mezzi di sussistenza, ma quello di andare in suo soccorso con ciò che è lecito (sementi, pozzi, legname, fertilizzanti…..) anzichè rimediare ad un’ingiustizia creando un’altra ingiustizia.
Troppo facile ammantarsi di una solidarietà, che furoreggia all’insegna del siamotuttipiùbuoni a spese altrui. Il meccanismo è ben rodato, che si tratti di portare cibo a che non ne ha, di sostenere la ricerca in soccorso di chi è malato, di aiutare economie in crisi:  se ne è avuta dimostrazione evidente in risposta al  terremoto della scorsa estate nei paesi dell’Italia centrale, in seguito al quale in moltissime parti d’Italia sono stati organizzati banchetti a base di amatriciana allo scopo, si è sbandierato, di aiutare  economie in ginocchio. Francamente, per chi ha deciso di aderire, l’impegno non è stato dei più onerosi dal momento che tutto ciò che si chiedeva di fare era mangiare, mangiare e poi ancora mangiare, attività notoriamente apprezzata al di là di ogni necessità. E se qualcuno, in preda a deliri di conoscenza, avesse deciso di porsi qualche domanda su chi (non cosa) era parte di  una prelibatezza quale l’amatriciana è, il garbo del linguaggio avrebbe costituito ulteriore argine all’irrompere di qualche  pensiero disturbante: come ingrediente clou della preparazione avrebbe infatti trovato, oltre al pecorino (ma tanto il formaggio non si connette mai all’idea di sfruttamento animale) il guanciale: lusinghe del linguaggio, che sollecita immagini di morbidezza, quiete, accoglienza: il guanciale, quando non è quello che favorisce i nostri sonni sereni, è, nel nostro immaginario,  quello fatto di rose. In realtà nulla di più alieno dalla verità, che è invece quella della guancia del maiale (nessuna parte di questo animale viene in altri contesti chiamata con un termine tanto gentile: se mai zampone, cotenna, strutto….) , sulla cui consistenza di grasso e venature magre gli esperti vanno discutendo. Quanti sono quelli capaci di accostare il pensiero di quella guancia, con quel sapore di umano che il termine contiene, ai maiali uccisi, appesi a testa in giù a sgocciolare sangue, dopo avere cercato di scalciare lontano la loro morte?  Meglio che no:  il piacere della gola e quello della pancia normalmente zittiscono le  cattive associazioni, figurarsi la meraviglia di poter spostare tutta l’attenzione sulla solidarietà, di cui piace tanto sentirsi interpreti.
Il copione di base, mutatis mutandis, viene recitato in altri contesti: siamo in tempi di maratona Telethon, alias raccolta fondi (tantissimi) per la ricerca.  Buonisti di tutto il mondo unitevi: tutti in abiti da sera, festosi e luccicanti, presumibilmente ben pagati, a sollecitare dagli schermi i migliori istinti solidaristici in favore di chi sta male: urletti di entusiasmo per la generosità dei telespettatori, che non deludono mai e magari, qua e là, un’intervista a bambini affetti da malattie genetiche, con primi piani soltanto un po’ sfocati (un po’ di rispetto, che diamine, per il dolore altrui!), a schiacciare il pedale dell’emotività. Anche in questo caso, grande assente è parte dell’informazione: non una sola parola, neppure per sbaglio, a ricordare che la ricerca viene svolta anche con la sperimentazione sugli animali, vale a dire con metodi sottoposti a fondamentale revisione scientifica. Soprattutto silenzio tombale sulle inaudite terrificanti sofferenze di tutti gli animali coinvolti,  convitati di pietra alla serata di gala, quelli, pensando alla cui disperazione, Elsa Morante commentava “Non c’è parola in nessun linguaggio umano capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”.
Sulla pelle degli animali vengono quotidianamente compiute le peggiori nefandezze, nel silenzio delle coscienze tacitate da meccanismi che tendono a rimuovere o negare una realtà tanto scomoda che ci dovrebbe piuttosto inchiodare alle nostre responsabilità. Ai meccanismi rodati, va ad aggiungersi in questi casi quello della giustificazione morale: il male inflitto, nel caso in cui fuoriesca dalle maglie della rimozione e della negazione che tendono a tenerlo ben lontano dalla nostra consapevolezza, è comunque non solo necessario, ma anche legittimato da nobili scopi, da ideali superiori: soccorriamo chi è in difficoltà, ci diamo da fare per alleviare le sue sofferenze. Non siamo lontani dalla dottrina machiavellica del fine (elevato) che giustifica i mezzi (disumani): l’attenzione tutta concentrata sul bene in corso d’opera, vero o presunto che sia, che tendiamo ad amplificare ed esaltare, viene distolto dai metodi usati, dal dolore con cui è lastricata l’intera strada. Ogni intervento in difesa degli animali, in un contesto del genere, suscita reazioni scandalizzate, che, nel solito marasma di argomentazioni, mistifica la realtà riorganizzandola nel binomio che oppone le persone per bene, quelle che fanno loro la assodata gerarchia dei viventi, in cima alla quale pongono se’ stessi, alle altre che, nell’identificazione con chi le proprie ragioni le vede sempre negate, vengono delegittimate, condannate senza processo per crimini di insensibilità.
“E’ nel buio che devi guardare, con disobbedienza, ottimismo e avventatezza”, raccomandava Marguerite Yourcenar: in questo buio, a ben guardare, li possiamo vedere tutti gli esseri che continuano a pagare senza colpa, senza poter capire altro che  la propria stessa sofferenza, senza poter fare nulla per  sottrarvisi. Allora forse almeno il buon gusto di non ammantarci di un altruismo, che davvero ci è estraneo, dovremmo  conservarlo.

2 commenti:

  1. Siamo alle solite: ogni atteggiamento o azione di profitto personale viene mistificato con la "buona causa".

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    1. Eh si. Così come la green economy, tutto ciò che è bio, eco e chi più ne ha più ne metta. Buona giornata Roberto

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