giovedì 13 giugno 2013

L'UOMO E IL CANE




Non è semplice cercare di definire il rapporto complesso che lega l’uomo al cane: innanzi tutto non si può fare altro che contestualizzarlo nel tempo e nello spazio, riferendosi a quello che è osservabile  oggi, nel mondo occidentale, nell’ambiente prevalentemente urbano,  che è  il risultato di un processo lunghissimo iniziato con la domesticazione del cane circa  14.000 anni fa ed ha poi assunto forme diverse a seconda dei contesti. Oggi, negli spazi ristretti delle nostre città,  nelle relazioni intraspecifiche profondamente modificate con l’avvento della famiglia nucleare, anche la relazione tra l’uomo e il cane è esposta ad analoghi cambiamenti.
Come tutte le relazioni è biunivoca,  da leggere dal punto di vista di entrambi. Per quanto riguarda il cane , il suo modo di guardare all’uomo si riassume nell’affermazione pensierosa di Abbas Kiarostami, regista iraniano meno conosciuto ma non meno geniale come scrittore, che “per quanto ci pensi non capisco la ragione di un tale attaccamento del cane”: in altri termini il modo del cane di rapportarsi al suo compagno umano è in genere totalizzante, riferito ad  un attaccamento senza se e senza ma, ad un’affezione sfiancante che tende ad esprimersi nel bisogno di vicinanza, nella dipendenza, in una sorta di adorazione, che è lecito dubitare  possa essere giustificata dalle caratteristiche umane e pare  più probabilmente dipendere da quelle dell’animale, che le dispensa gratis.
Molto più complessa la realtà  se vista dalla parte dell’uomo, che, nel contesto urbano,  trova nel cane risposte a tanti bisogni diversificati: molte persone, quando vengono  richieste di spiegare quale sia il motivo profondo del loro attaccamento all’animale, rispondono in genere con quel  mi fa compagnia” che fa riferimento alla sua funzione di antidoto alla solitudine, che innegabilmente un cane è in grado di assolvere. Ma che in realtà non è certo l’unica e a volte non è nemmeno quella più ricercata, per lo meno nei casi di convivenza dei  rappresentanti della specie canina con famiglie numerose e composte anche da bambini.
Sappiamo dai tanti studi svolti che ben più ricche sono le sue prerogative: perché un cane, con la sua presenza,  riesce a modificare l’umore in senso positivo, inducendo una maggiore propensione al riso e al sorriso e aiutando così ad innescare un approccio diverso con le cose della vita;    induce al  contatto fisico, con la sua irruenza o la sua dolcezza e mitezza, contatto che è basilare per il benessere personale ma che molte persone faticano  ad esprimere,  perché inibite dalla paura del giudizio o del rifiuto, finendo in questo modo per coartare la propri affettività;      proprio nel contesto urbano che è per sua stessa natura isolante assolve la funzione di facilitatore sociale, perchè riesce a mettere in contatto persone, che normalmente si ignorano se estranee, le quali , in presenza dei rispettivi cani, si rivolgono la parola con grande facilità a partire magari dalla classica domanda sulla razza, che è solo l’inizio di un dialogo che prende poi forme diverse: il contatto si stabilisce e le persone cominciano a parlarsi, affievolendo quella  diffidenza iniziale che pare essere pervasiva tra sconosciuti. La cosa è davvero singolare: perché  i cani, nelle nostre città sono tutt’altro che rari, come ci assicurano le  statistiche che parlano di ben 7 milioni di loro che  vivono nelle nostre case; bene, nonostante questo,  hanno la capacità di attrarre l’attenzione, di suscitare curiosità, addirittura di fare sentire importanti  i loro compagni. E’  un fenomeno talmente riconosciuto che è non è certo sfuggito ai  pubblicitari, i quali, sempre attenti a cogliere e sfruttare umori, preferenze e sensibilità,  sempre più spesso li  utilizzano come testimonial di prodotti del tutto disparati: una rapida scorsa agli spot più diffusi incrocia il cucciolo di labrador che srotola  carta igienica, il jack russel che fa pipi sulla cabina telefonica di Infostrada, in competizione con il colossale Ettore, ingaggiato dalla la Tim; c’è poi quello che va in  gioiosa trasferta con tutta la famiglia infilandosi nel baule della macchina e l’altro , elegante e sinuoso, al guinzaglio della signora sofisticata.
In uno scenario in cui il cane sempre più condivide spazi con gli umani si inserisce una notizia che arriva dagli Stati Uniti, secondo cui sono sempre di più le  aziende che consentono ai propri dipendenti di portare il proprio cane al lavoro: attente alla produttività che va di pari passo con il benessere personale, hanno preso atto che la sua presenza sul luogo di lavoro favorirebbe la socializzazione tra dipendenti, una maggiore collaborazione e fiducia fra colleghi, l’incoraggiamento del teamworking, la riduzione del tasso di competitività, la diminuzione delle assenze per malattia. Superfluo dire che  queste aziende, tra cui ci sarebbe anche  Google, godono delle preferenze dei nuovi assunti.
Davvero c’è di che riflettere  sulle incredibili potenzialità insite in questo  rapporto, quando è positivo: una relazione  davvero  speciale se troppo spesso, invece, non venisse contaminata dall’irrompere di bisogni e dinamiche di cui l’elemento umano è in genere responsabile, talvolta senza nemmeno averne consapevolezza.
Qualcosa di fortemente discutibile comincia a delinearsi con la  scelta di comperare un cane, cosiddetto di razza, in negozio o in allevamento; inevitabile a questo punto considerarsi  suo padrone anziché suo compagno. Il rapporto appare  sbilanciato fin dall’inizio, perché  il cane viene visto come oggetto, come cosa, come proprietà, dal momento che ad essere comprate sono le cose, di cui poi  si diviene proprietari.  Un altro  sguardo oltre Atlantico:   l’assemblea legislativa della contea di San Francisco sta valutando una proposta di legge che vieterebbe la vendita di animali domestici in città, proprio per contrastare il fenomeno dell’abbandono e del maltrattamento degli animali da parte dei padroni che li comprano e li trattano come fossero merce o oggetto di decoro per la casa e per indirizzare le scelte nei canili. Proposta dalla vita difficile, su cui non è consentito ottimismo,  visti gli interessi economici che va a toccare: ma intanto un tabù è caduto.
 Interessante  è anche la scelta della razza: quando il binomio uomo-cane non è frutto di un incontro ma della scelta umana, capita di assistere ad un fenomeno che è un vero e proprio gioco di proiezioni: l’uomo sceglie il cane vedendo in lui quasi  un   alter ego o un oggetto compensatorio: è il caso tutt’altro che raro per esempio di signore che esibiscono al guinzaglio firmato cani graziosi, eleganti, “vestiti” con le “marche” che loro stesse indossano; o di uomini superpalestrati con cani dall’aspetto ringhioso, reso più minaccioso da collari borchiati. Innegabile che in questi casi il cane è diventato una propaggine della propria immagine, una sorta di  accessorio. Di certo in molti casi non c’è nulla di male,  ma vale la pena di riflettere che  il cane finisce per non essere riconosciuto nella sua essenza, ma confuso con una parte di sé, parte a cui poi gli viene, coscientemente o meno, richiesto di adeguarsi: non è affatto detto che lui sia in grado di farlo, come è il caso di cagnoni che sono timidissimi dietro l’aspetto minaccioso, i quali, proprio come accade a miti o pantofolai “cani da caccia”,  vengono vissuti come una delusione per chi li aveva scelti in base ad altri bisogni: l’abbandono è dietro l’angolo.
In una prospettiva più solidale è invece importante uscire dall’antropocentrismo per cercare di conoscere il cane nella sua caninità, quindi nelle sue caratteristiche di specie, nei suoi bisogni, in uno sforzo che si avvicini a quello che lui certamente mette in atto nel cercare di capire la nostra umanità: lui lo fa guardandoci diritto negli occhi, ascoltando, cercando di decodificare i nostri cenni e, se non sicuro di avere ben capito, insistendo nel guardarci con l’aria interrogativa, in attesa del chiarimento che gli consenta di dare la risposta giusta.
Fondamentale, nel nostro rapporto con il cane, modificare anche il linguaggio e abolire il termine “padrone”: il linguaggio non  è neutro, veicola convinzioni e finisce per fornire una narrazione della realtà. Il rapporto padrone-servitore non è quello che deve definire la  relazione uomo-cane, relazione che, pur nella inevitabile asimmetria dei ruoli che non sono sovrapponibili, non può prescindere dall’inclusione del soggetto più debole nel proprio orizzonte etico . Non può continuare ad essere l’ennesimo  rapporto di prevaricazione di cui davvero non c’è bisogno, ma che invece sopravvive  e si esprime nei  maltrattamenti , nella trascuratezza, negli abbandoni. Per tacere che, pur animale d’affezione e quindi fortunatamente esentato, nella nostra società, dall’essere trasformato in cibo, il cane non è purtroppo  esentato dall’essere usato  per la vivisezione, magari a beneficio di altri cani, quelli ricchi.
In conclusione molte cose ognuno di noi può fare, mentre le leggi sono chiamate a  fare la loro parte. L’obiettivo generale è quello della convivenza con tutte le altre specie in un rapporto di amicizia e di rispetto. I cani davvero da parte loro  rendono questo compito quanto mai facile: noi dobbiamo fare la nostra parte nella coscienza che, come recita un detto francese, se meticolosamente addestrato l’uomo può diventare il migliore amico del cane.

2 commenti:

  1. Allora, restando in Francia, mi viene in mente Daniel Pennac che in "La fata carabina" scrive: "Uno crede di portare fuori il cane a fare pipì mezzogiorno e sera. Grave errore: sono i cani che ci invitano due volte al giorno alla meditazione." Ricordiamocene quando li portiamo fuori: sono minuti da passare con loro, non parlando al cellulare con il resto del mondo.
    Paola Re

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  2. Sono d'accordo Paola. Bisogna essere onesti con se stessi e dirsi la verità: si accarezza il cane e lo si abbraccia e gli si parla e lo si porta in giro perchè tutte queste cose ci danno molto. Non esclus il piacere della sua gioia.Come in molte altre situazioni della vita, c'è in atto un gioco di proiezioni per cui attribuiamo agli altri quello che invece è nostro. E così siamo sempre convinti di agire per il bene degli altri, quando lo facciamo per il nostro.

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